Sei anni di crisi hanno falcidiato svariate categorie di lavoratori, ma è difficile incontrarne una più furibonda e organizzata dei tassisti italiani (100 mila persone in tutto, compresi i noleggiatori di auto private). Ieri, dopo aver già protestato in diverse città italiane, in un migliaio hanno manifestato per le strade di Torino, dove ha sede l’Authority dei trasporti. Con i tassisti torinesi c’erano anche delegazioni da Genova, Milano e Roma.

Dopo aver parcheggiato le automobili, al mattino si sono messi in marcia disposti a tutto pur di farsi sentire. Nasi finti da pagliaccio, cori da stadio non sempre ripetibili – soprattutto contro Benedetta Arese Lucini, general manager di Uber Italia – cartellonistica ben studiata e anche un po’ sopra le righe («Je suis taxi legale»), striscioni, petardi e bombe carta, aggeggi che non tutte le categorie possono permettersi di esibire senza subire la “replica” poco carina della polizia. Poi lancio di uova, fumogeni da stadio e nervi sempre tesi, soprattutto al pomeriggio, in via Nizza, dove era in corso un incontro nella sede dell’Authority dei trasporti. Oltre ad aver bloccato il traffico con decine di automobili in corteo, alcuni tassisti si sono fronteggiati con la polizia chiamata a proteggere il luogo della trattativa. Alla fine di una lunghissima giornata i tassisti hanno promesso di «bloccare tutta l’Italia», e non sembra una boutade.

Ce l’hanno con Uber, la multinazionale californiana che ha introdotto in tutto il mondo un’applicazione per smartphone che può trasformare in tassista chiunque abbia a disposizione un’automobile, naturalmente a prezzi ridotti rispetto a una tradizionale corsa di taxi.

La leggenda vuole che i tre creatori di Uber – Garret Camp, Travis Kalanick e Oscar Salazar – abbiano avuto l’idea geniale dopo aver atteso inutilmente un taxi a Parigi. Era il 2008 e un anno dopo la start-up di trasporto con autista vide la luce a San Francisco. L’anno scorso la società è stata valutata 17 miliardi di dollari, oggi dà lavoro a più di 2 mila persone e offre i suoi servizi in un centinaio di città negli Stati Uniti e in circa settanta città nel mondo.

«Sono abusivi, ci rubano il lavoro», dicono i tassisti. Se il nuovo taxi dell’ipermodernità dovesse prendere il sopravvento, questa la preoccupazione, il valore delle licenze crollerebbe inesorabilmente. Per loro, dicono, si tratta di una sorta di liquidazione. Ecco perché stanno combattendo contro la liberalizzazione del servizio, è una sorta di lotta impari contro la «rivoluzione tecnologica» la cui applicazione in altri settori ha già spazzato via più di una tipologia di lavoratori. Ma i tassisti sembrano decisi a vendere cara la pelle. «Chiediamo il rispetto della legalità – ha spiegato Walter Drovetto, vice segretario nazionale dell’Ugl Taxi – se Uber è considerato illegale pretendiamo che qualcuno intervenga. Chi costa meno è perché non paga le tasse e fa tariffe a discrezione mentre noi abbiamo il tassametro piombato. Inoltre Uber effettua un servizio senza quelle garanzie che vengono richieste a noi tassisti che siamo sottoposti a controlli stringenti. Se queste persone vogliono fare il nostro lavoro, paghino anche loro il 50% di tasse».

L’appello è rivolto al ministro dei Trasporti Maurizio Lupi, ma per il governo non sarà semplice mettere dei paletti normativi a una multinazionale che ha la testa a San Francisco e che in nome del libero mercato può agire indisturbata in ogni parte del mondo. Ieri sera il confronto con il presidente dell’Authority, Andrea Camanzi, si è risolto con un quasi nulla di fatto che ha scontentato alcune sigle sindacali. Domani, questa la promessa, in via Nizza arriveranno anche i rappresentanti di Uber per spiegare le loro ragioni. Nel frattempo, Uber non ha perso tempo. Ieri, causa sciopero dei tassisti, ha fatto sapere ai suoi clienti torinesi che non tutte le richieste potevano essere soddisfatte, ma «lo sconto del 20% resterà valido anche per i prossimi giorni».