I supereroi, ormai, sembrano essere usciti dalle pagine dei fumetti e aver colonizzato anche vari altri mezzi di comunicazione. E se è facile ritrovarli da lungo tempo al cinema, in televisione e nei videogiochi, è probabilmente più inconsueto incontrarli tra le pagine di un romanzo.

Davvero inusuale, poi, se si tratta di un romanzo italiano e per di più ambientato a Napoli. Eppure è proprio quello che succede leggendo Minerva di Mario Coppola (Giunti, pp. 426, euro 18). L’autore, napoletano, giovane architetto con un passato lavorativo all’estero – tratti biografici che condivide, ironicamente, con uno dei personaggi importanti del racconto – narra la storia di Eva De Luca, trentenne che fin da bambina era in grado di farsi scoppiare in mano dei petardi senza farsi male. Dal nome di quei petardi, Minerva appunto, deriva il suo soprannome.

DOTATA, DUNQUE, di un fattore rigenerante alla Wolverine, ma anche di forza e agilità non comune, distrutta dai sensi di colpa perché convinta di essere la causa della morte dei suoi genitori, quando scopre la verità, scatenerà la propria vendetta su camorristi e multinazionali senza scrupoli, veri responsabili del destino della sua famiglia e non solo.

A una prima parte, caratterizzata dall’oscurità, dalla vendetta, dove il riferimento fumettistico può essere ritrovato in Punisher, il vigilante implacabile e crudele nel perseguire la propria missione, segue poi una sorta di presa di coscienza, di maturazione del personaggio nell’assumere il proprio ruolo da supereroina, pur mantenendone le caratteristiche dark. Una sorta di Batman, per così dire – come appare evidente anche dall’utilizzo, da parte della protagonista, di tutta una serie di gadget ultratecnologici – in grado di frenare i propri eccessi di violenza e di intervenire per difendere i più deboli, gli indifesi. Ed Eva diviene effettivamente Minerva, la dea pagana della guerra giusta.

RICCO DI RIFERIMENTI ulteriori ai fumetti (il principale richiama Tommy Elliott, l’Hush di Batman) e al cinema, non solo statunitense, il fatto che Eva acquisti i poteri dal contatto con delle sostanze tossiche, non può non far pensare a Lo chiamavano Jeeg Robot, il romanzo di Coppola risulta poi fortemente originale e in qualche modo mediterraneo, napoletano nella struttura, nei toni, nello sguardo. La città di Napoli, innanzi tutto è presente con tutte le sue contraddizioni, i suoi luoghi così diversi tra loro.

Inoltre, ci sono forti elementi di critica sociale e politica e spesso i fatti narrati, pur assolutamente immaginari, si basano sulla realtà (lo afferma esplicitamente lo stesso autore all’inizio del libro). Sono presenti momenti ironici, spesso quasi segnalati dall’uso del dialettto, che si alternano ad atmosfere cupe che ricordano Malacqua, capolavoro di Nicola Pugliese, sottolineate dalle bellissime illustrazioni di Giuliana Guzzi.

Da sottolineare, infine, come sia i personaggi positivi sia quelli negativi – evidentemente nati negli anni ’80 come l’autore – facciano emergere un rapporto fortemente critico e conflittuale con i propri genitori, in quanto esponenti della generazione protagonista del lungo Sessantotto italiano. Come afferma per esempio una di loro, Sara, non senza fare un po’ di confusione: «Erano fighissimi, bravissimi, bellissimi. Figli dei partigiani, ideatori della rivoluzione culturale, delle lotte operaie… E poi Berlinguer! Il Partito Comunista! Più ansia di così? Forse è questa la vera ragione per cui me ne sono andata: o partivo o li ammazzavo».