Al pensiero della nostra adolescenza, ecco i luoghi di una Roma inspiegabilmente silenziosa, un fondale incantato dalle tinte luminosamente tenui, dove i rossi si stemperano nei rosa; i verdi dei pini di Villa Massimo si fanno più delicati e leggeri con un effetto di erba novella, misteriosamente.

E quei gialli carichi degli intonaci di certi palazzi son divenuti pallidi, mentre attraversiamo le consuete strade per raggiungere puntuali, la mattina presto, i regolari volumi bianchi dell’architettura del Giulio Cesare, il nostro liceo, quelle pareti che fan da quinta alle villette cariche di glicine di piazza Caprera e che, affacciandosi su corso Trieste, guardano la torretta di una villa dove, ad encausto, la decorazione mostra un corteo rinascimentale. Un’ora senza rumori e d’una luce chiara. Via delle Isole imboccata da Villa Paganini in lieve pendio che scende, e siamo a via Traù.

M’abbandono a tener dietro al flusso dell’emozione e sono preso dallo stupore per come mi si accosta nella mente l’amico spirato poche ore fa. Rammentava Paolo alcune settimane or sono, al Circolo Arci di Pietralata, certi episodi di quei nostri anni di allora, io che mi apprestavo a dire del suo romanzo appena stampato Tremagi e il rasoio di Occam, e lui, prima di cantare due, tre suoi pezzi e controllare, non senza sforzo, la sua voce e modularla, nel ritmo scandito delle parole, con sapienza. Le parole. Non diceva che le sue canzoni erano racconti? I racconti del mio amico intelligente, colto, delicato che velava la dolcezza tenace del sentimento che ci lega nell’accordo delle idee e delle opinioni condivise o messe in dubbio, come nel gioco delle parole spiritose che danno in un sorriso; o in certi accostamenti buffi – casi, combinazioni, rime, battute, personaggi – che muovono al riso. Paolo sa ridere.

E saper ridere è arte concessa a pochi. Mi rileggo. Incontro sopra quel: e siamo a via Traù e un riso mi sale spontaneo, non contenibile e lo vedo, lo stesso mio riso, tra la barba di Paolo e la sua bocca, che ha dovuto togliere la pipa e un po’ di fumo n’esce. E siamo a via Traù impone il seguito entro una frase musicale divertita e una rima che non ci sarà difficile, ridendo, escogitare.

Non trattengo il riso, ma contengo il pianto. E scrivo come sospinto da onde che sono un affiorare di volti, molti dei quali intorno ancora dopo tanti anni, ma qui, nel movimento dei miei pensieri, giovani nella bellezza a tutti comune dei vent’anni, il viso suo di Paolo e il mio, come anche Paolo se lo ricorda.
Ci ritroviamo mentre ci risuonano ora dentro le voci di quelle assemblee nell’aula magna della nostra Facoltà di Lettere e Filosofia e di quei cortei fino a via Veneto e a piazza del Popolo. E restar fermi nella loro formulazione questioni e tesi e canti. Come quando si cantava le monde va changer de base e le note de

L’Internazionale parevano salire fino a posarsi sugli attici degli antichi palazzi di Roma per applaudirci, di lassù anche loro, che siamo ora noi, qui, vedete, che lo cambiamo il mondo, in questa mattina di primavera. Davvero.

Anche le sue canzoni han camminato le città, incedendo per prender parte alle grandi manifestazioni in cui si mirava ad un’Italia più giusta e più felice. Altre raccontano in musiche risentite vicende di sentimenti dispari e passioni. Altre procedono con passo leggero animate da motivi cantabili che senti arrivare, come da certe lontane orchestrine a notte, dal varietà o da qualche circo di fuorivia. E sono ironiche, pungenti, allegre.