Il volume di Alain Supiot, dal titolo fortemente evocativo, La sovranità del limite. Giustizia, lavoro ed ambiente nell’orizzonte della mondializzazione (Mimesis, pp. 216, euro 18), raccoglie alcuni saggi pubblicati tra il 2000 e il 2019, tradotti e selezionati a cura di due allievi Andrea Allamprese e Luca D’ambrosio e ci offre una densa panoramica degli ultimi percorsi di ricerca di questo straordinario giuslavorista francese, certamente tra i più influenti nel dibattito contemporaneo sulle trasformazioni del lavoro e suoi destini.

SI TRATTA DI UNA RIFLESSIONE inquieta, che pur ricca di approfondimenti «tecnici», tende a porre al centro della trattazione i rapporti tra il diritto del lavoro e i temi più generali della giustizia e del governo della società, facendo del primo un case study su come il Diritto, unendo razionalità ed equità, potrebbe sviluppare l’autodeterminazione e la libertà dei singoli, in un rapporto virtuoso con le altre regole che disciplinano l’evoluzione sociale.

L’autore si spinge sistematicamente in campi di frontiera con la filosofia del diritto, l’economia, l’antropologia e la sociologia in una sorta di processo circolare nel quale le suggestioni di queste discipline si riflettono nell’esame delle tendenze in atto negli ordinamenti lavoristici e vengono poi nuovamente proiettate in una dimensione regolativa più generale, spesso a livello planetario.
Un doppio movimento che non dà mai nulla per scontato; anche le categorie basilari dei giuristi selezionano solo alcune aspetti del fenomeno «lavorativo», gli orientamenti pro-labour dovrebbero contemporaneamente proteggere le persone dalla forme più acute di sfruttamento, ma al tempo stesso rimettere in discussione quei sistemi di classificazione dell’attività umana che sono divenuti la fonte del reclutamento della cosiddetta «forza-lavoro» nella modernità, trovando schemi alternativi e comunque meno alienanti.

Il diritto del lavoro, alla Supiot, è quindi una disciplina eminentemente critica; essa non tralascia l’analisi propriamente giuridica, che – come diceva Hans Kelsen – non può che partire dalla ricostruzione delle norme in vigore e del loro rapporto con l’ordinamento giuridico nel suo complesso, ma il suo metodo sembra distinguersi per questa ricerca dei significati perduti dalla lingua stessa dei diritti, delle sconfitte «semantiche» che il garantismo sociale ha subito, pur di diventare effettivo e ben radicato a livello costituzionale.

IN SINTESI DUE SONO I TEMI che sembrano – alla luce della bella presentazione dei curatori e dell’impegnata post-fazione di Ota De Leonardis – centrali nel volume, così come in altro contributo di Supiot pubblicato di recente: Homo Faber: continuità e rotture (nel libro con Axel Honneth e Richard Sennett Perché lavoro? Narrative e diritti per lavoratrici e lavoratori nel XXI secolo, Feltrinelli, ripubblicato negli Annali della Fondazione a cura di Enzo Mingione).

Il primo concerne il privilegio accordato alla protezione del lavoro subordinato nei sistemi di tutela, soprattutto del novecento. Il secondo, il ridimensionamento dei modelli di stato sociale a favore di una egemone governance «attraverso i numeri» che tende a sopprimere le scelte democratiche sulla base degli imperativi della crescita economica che inibiscono la funzione essenziale del Diritto di modulare le relazioni sociali, di rappresentare un «limite» per l’agire umano, assumendo una certa idea regolativa di giustizia.

Sul primo tema Supiot ha sempre insistito, sin dalla sua Critique du droit du travail del 1994; il lavoro è un concetto multiplo e polisemico, restituito dall’immagine di homo faber, come costruttore non solo di opere ma dello stesso nostro apparato simbolico, che solo per effetto della rivoluzione industriale è stato confinato, in prevalenza, nella finzione contrattuale del lavoro come merce, come vendita dei propri servizi a tempo, in cambio di denaro.

IN QUESTA COMPRAVENDITA (il locat se), costitutiva delle relazioni capitalistiche, si perde la dimensione contenutistica del lavoro che viene a essere disumanizzato in cambio di una protezione «esterna» di tipo quantitativo, non qualitativo (ad es. salari, protezione dal rischio della disoccupazione, etc.). La «subordinazione» è un presupposto della tutela dei diritti sociali, ma al costo di far operare le persone come le macchine, secondo calcoli che sono estranei a ogni rivendicazione sui prodotti del lavoro e sul modo in cui vengono realizzati.

UNA CERTA ATTENZIONE per il «contenuto» dell’attività svolta residua nel marginale mondo del lavoro autonomo, che però, sino a oggi, è rimasto sostanzialmente privo di quasi tutte le tutele tipiche del lavoro dipendente. Si tratta di una posizione molto vicina a una certa tradizione di pensiero critico che da Marx in poi sottolinea nel contratto di lavoro dipendente, anche se addolcito dalla protezioni del welfare state, persistenti tratti «quasi-servili»: «con la rinuncia all’ideale civico di autonomia nel lavoro per identificare la giustizia sociale con la tematica della distribuzione delle ricchezze prodotte, con la liberazione dal bisogno» (Homo faber).

In La sovranità del limite, l’autore richiama la nota ricerca diretta nel 1999 per conto delle istituzioni europee con la proposta di un riassemblaggio dei sistemi di tutela attorno a un «diritto comune del lavoro» applicabile a tutte le tipologie (compreso quello indipendente), cui affiancare protezioni più specifiche per singole attività contrattuali, si da indirizzare diritti, principi e garanzie alla tutela della persona stessa garantendo a ognuno uno statuto professionale permanente nel tempo, oltre le singole vicende lavorative.

LA POSSIBILITÀ di autodeterminazione per il singolo di «quanto e come» lavorare diventa il punto determinante di questa proposta di riscrittura anche attraverso l’erogazione di «diritti sociali di prelievo» (tra i quali va senz’altro aggiunto un reddito di base), che consentano il più possibile la libertà di scrivere la propria biografia lavorativa componendo nei passaggi salienti.
Negli ultimi anni questa riflessione appare ulteriormente radicalizzata nella constatazione che la logica del profitto, della crescita quantitativa orientata alla mera accumulazione (favorita anche dal processo di mercificazione della forza lavoro) sembra aver rotto gli argini imposti dal gioco democratico e dai contrappesi sindacali, generando una cultura insofferente di ogni limite, non solo di rispetto delle persone, ma anche dell’ambiente in cui si opera, con le conseguenze distruttive della cosiddetta «globalizzazione».

A essa si oppone una diversa prospettiva connessa al ripristino dei legami di solidarietà, nell’alternativa di una «mondializzazione», un programma di rinnovamento dei meccanismi giuridici emancipatori che privilegia tre ambiti: la responsabilità giuridica delle imprese anche per le loro filiere produttive, un regime del lavoro realmente umano (che revochi la meccanizzazione integrale del lavoro invertendo le attuali tendenze operanti nei settori digitalizzati) e infine la trasmissione alla future generazioni di un «mondo abitabile». Tre percorsi che ricostruiscano una sovranità dei «limiti umani, ecologici e culturali che la globalizzazione ha condannato all’oblio, ma senza i quali l’intera umanità sarà condannata – nel giro di qualche decennio e con effetti catastrofici – a scontrarsi con i limiti biofisici del pianeta» (Presentazione del volume).

RIMANE CERTAMENTE aperta la questione politico-costituzionale delle sedi in cui questo «contropiano» potrebbe diventare effettivo: mentre negli scritti di fine millennio l’Ue è vista come un terreno avanzato di sperimentazione e di riprogettazione dei sistemi lavoristici (il che sembrerebbe implicare l’apertura a un federalismo continentale favorevole alle differenze dei territori e delle culture) in quelli più recenti le politiche di austerity o alcune decisioni della Corte di giustizia sul bilanciamento tra diritti sociali e libertà economiche sono oggetto di censure molto aspre.

Tuttavia, nelle brevi note di Introduzione all’edizione italiana, si allude a un «ruolo dell’Unione ripensata e rifondata» come volano dell’istituzionalizzazione di una certa solidarietà tra le nazioni anche nella prospettiva di un rilancio delle organizzazioni internazionali nate nel dopoguerra, da riformare e da armare giuridicamente per essere all’altezza della loro missione. Un progetto che ci sfida, un libro prezioso.