I senatori Pd: il governo vada avanti. Renzi, idea pazza delle dimissioni
Democrack Attesa per la direzione del 13 febbraio, Orlando smentisce la corsa Ma a Palazzo Madama in quaranta dicono no al voto a giugno. Bersani: ma quando si vota? Dica che vuol fare, basta giochetti. Io sono per il voto nel 2018. Si faccia la legge elettorale e a giugno si parta con il congresso
Democrack Attesa per la direzione del 13 febbraio, Orlando smentisce la corsa Ma a Palazzo Madama in quaranta dicono no al voto a giugno. Bersani: ma quando si vota? Dica che vuol fare, basta giochetti. Io sono per il voto nel 2018. Si faccia la legge elettorale e a giugno si parta con il congresso
«Fandonie». Il ministro Andrea Orlando smentisce la sua intenzione di correre per la segreteria del Pd e anche la sua contrarietà al voto anticipato. Il ministro Maurizio Martina nega di aver parlato di questi temi con il collega Guardasigilli: «Leggo sui giornali ricostruzioni di fantomatici incontri sul futuro del Pd a cui non ho partecipato». Il ministro Dario Franceschini invece tace, ma i suoi più vicini negano risolutamente il suo lavorìo per persuadere Renzi, con le buone o con la forza dei numeri in parlamento, di rallentare lo slancio verso il voto a giugno.
Fatto sta che ieri quaranta senatori democratici hanno firmato un documento che in sostanza chiede di portare a termine la legislatura. «Serve un tempo ragionevole per l’elaborazione di una prospettiva, degli obiettivi. Affrontare le emergenze e risolverle nell’interesse dei cittadini è compito del governo», scrivono. Aggiungendo una polemica esplicita contro il Renzi gaffeur sui vitalizi: non bisogna «concedere più nulla alla pulsione antipolitica, soprattutto nella sua forma devastante di antiparlamentarismo», segue lungo elenco di cose ancora da fare per poi «andare a vincere, vedremo se con la lista di partito o di coalizione, alle elezioni politiche (…) dando così un senso ai mesi che restano della legislatura». Vannino Chiti spiega che si tratta di un documento «contro la scissione». Ma non è solo questo il messaggio. Fra i firmatari ci sono franceschiniani di osservanza fassiniana (nel senso di Piero Fassino) come Amati, Valentini e De Biasi; e Giovani turchi tendenza Orlando (come Vaccari, Borioli, Fabbri). Quindi a dispetto delle smentite dei capicorrente, nel gruppo dem il fronte del no al voto anticipato ormai conta più della metà dei senatori: oltre 70 su 103 ex morituri che oggi avvertono che di lì non si passa. Non si passa più. Fra i quaranta firmatari infatti non c’è la ventina bersaniana: che non ha bisogno di mandare segnali.
Basta ascoltare il Bersani quotidiano. Ieri per esempio in Transatlantico si è fermato a lungo a parlare con i cronisti: «Ma quando si vota? Renzi dica che vuol fare, basta giochetti. Io sono per il voto nel 2018. Di qui a giugno, poi, si faccia la legge elettorale e a giugno si parta con il congresso». L’ex segretario non solo non nega il pressing esplicito nei confronti del segretario, ma ma anzi conferma il tentativo di «caminettizzare» Renzi (secondo la definizione di un dirigente di alto rango): ovvero costringerlo a smettere di decidere tutto da solo e cominciare a trattare con i capicorrente. Nei confronti del paese serve «un soprassalto di responsabilità», spiega, «Io, Franceschini, Orlando, Renzi, dobbiamo dire quando vogliamo andare a votare. Da quel momento metti in fila tutto: il governo, la legge elettorale, la manovra, il congresso, tutto. Altrimenti non si esce da questo circuito politico-mediatico e si incasina tutto».
Oggi pomeriggio i bersaniani terranno la loro riunione. sarà a porte chiuse, ma la loro posizione è nota: Gentiloni vada avanti, Renzi faccia una proposta per far uscire il partito dalle secche in cui si è cacciato. E quanto alla legge elettorale il minimo sindacale della richiesta la cancellazione dei capilista bloccati. Areadem e Giovani turchi hanno già tenuto le loro riunioni nella concitata giornata di martedì.
Renzi tace. Dal Nazareno, dove ieri tornato prepara la direzione del 13 febbraio. «Una direzione non divisiva», giurano dal Nazareno. Per quel giorno con ogni probabilità avrà letto e meditato con attenzione le motivazioni della Consulta sulla sentenza sull’Italicum per capire i margini di manovra sulla nuova legge elettorale. In ogni caso ormai non sarà la dottrina della Consulta a cambiare l’aria che tira in parlamento. Preso atto che non ci sono le condizioni per andare a votare a giugno, il nuovo piano B di Renzi potrebbe essere tutto diverso. Persino un clamoroso contropiede al fronte del voto a febbraio. Per evitare di farsi cuocere a fuoco lento il segretario potrebbe spiazzare tutti e fingere cedere alle – non molto lineari – richieste della minoranza: dimettersi e chiedere lui stesso di anticipare il congresso. Eviterebbe così di dare il tempo proprio all’asse del Fob (è l’acronimo da prima repubblica con cui al Nazareno si sfotte l’asse Franceschini, Orlando, Bersani) di saldarsi. Oggi Renzi potrebbe provare a vincere di nuovo il congresso. Operazione che a ottobre potrebbe non riuscirgli più.
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