Se si va sul sito Alviero Martini, alla voce «Tradizione italiana» si legge: «È da qui che prende vita l’inconfondibile Mappa Geo. La sapienza artigianale, l’abilità manuale, i colori vivi delle miscele, la luce negli occhi di chi crea dal nulla un prodotto senza eguali». Su quella «luce negli occhi» ci sarebbe molto da dire, dopo i dettagli sullo sfruttamento del lavoro emersi dall’inchiesta della procura di Milano. Ancor più da pensare viene leggendo uno dei passaggi successivi che dice: «Infine, il tessuto Geo si trasforma nelle mani di maestri pellettieri, unendosi a elementi quali la pelle, le metallerie, i preziosi dettagli, dando vita a prodotti unici e dalla qualità senza tempo di autentica manifattura italiana».

Per carità, magari in qualche laboratorio d’Italia c’è davvero chi confeziona quelle borse, targate 1° Classe, in quell’aulica atmosfera, ma allora ci piacerebbe conoscerli i nomi di quegli artigiani, perché se li si usa davvero non costa nulla nominarli, così chi è disposto a spendere circa 500 euro per una di quelle borse potrà vantarsene con le amiche dicendo: «Sai, questa esce dal laboratorio di Pinco Pallino sito in contrada Vattelapesca della Val Sai Tu», per dire. Che poi, se si va a vedere l’empireo della pelletteria, le vette di prezzo sono toccate da ben altri marchi.

Una Birkin di Hermès in coccodrillo può costare 150mila euro, una Dior Toujours grande va sui 4.100, una Chanel piccola costa 4.500, una shopping Diana piccola di Gucci la porti a casa per 3.800, mentre per una Mini Marmont, sempre di Gucci, te la cavi con 2.400. Roba da legarla al braccio con un antifurto. Alla luce di ciò, e se volessimo essere perfidi, si potrebbe dire che le Alviero Martini 1° Classe sono un po’ da «vorrei ma non posso», ma non lo diciamo. In ogni caso, i conti in tasca alla Maison ti viene da farli perché se la produzione di un pezzo costava alla ditta, in totale, 20 euro circa, ti domandi quanto ci guadagnava sulla pelle degli operai cinesi. Io, se mai avessi fatto un acquisto del genere, che non è nel mio stile, ogni volta che aprirei una cernierina di quel manufatto mi indignerei pensando a quanti denari mi hanno fregato.

Suppongo che un marchio del lusso o del quasi lusso si sentirebbe in grande imbarazzo a destare nelle sue acquirenti il più piccolo dubbio. Metti che una di loro, presa da un afflato umanitario, si svegli la notte in preda a domande sulla filiera? Metti che l’inconscio compaia all’improvviso nei loro sogni dicendo «Ma lo sai chi l’ha prodotta la tua cara borsetta? Sai chi ha tinto la pelle? Sai chi ha cucito i suoi manici? E i ganci? Sai da dove vengono i ganci con il logo?».

Circa due anni fa, nel novembre 2022, uno studio effettuato da SOMO, organizzazione indipendente olandese che dal 1973 indaga sulle multinazionali e sul loro modo di lavorare equo e sostenibile, ha pubblicato una ricerca secondo cui solo il 20% (9 su 44) delle aziende del lusso aveva indicato i nomi dei propri fornitori. Fra quelle che non avevano dato informazioni chiave sui loro prodotti in pelle c’erano Armani, Versace, Michael Kors e Coach. Inoltre, nessuna azienda del campione dava informazioni sui salari dei lavoratori nei centri di fornitura.

Quando spendi migliaia di euro per una borsa, allegare un passaporto di equità sembrerebbe il minimo sindacale, perché se è vero che nessuno fra coloro che l’hanno prodotta, nemmeno quelli pagati secondo le regole, potrà mai permettersi di acquistare ciò che la loro abilità artigianale ha fabbricato, sapere che la tua preziosa bag non è costata le dita o la vita a qualcuno può fare la differenza. Almeno lo speriamo.