C’è una categoria umana che da sempre mi incuriosisce. Avendo conosciuto, frequentato e subito vari tipi di ritardatari, compresa la sottoscritta che è una ritardataria intermittente e selettiva, sono arrivata alla conclusione che esistono due tipi di arrivatori in ritardo, quelli che proprio se ne fregano degli altri, e quelli che non lo fanno apposta ma sono vittime di metodi subdoli che loro stessi mettono in atto. In genere, questi ultimi sono maestri della dilazione. Invece di calcolare quanto serve per arrivare a un appuntamento e prepararsi per tempo, conteggiano male gli orari e cominciano a occuparsi di incombenze varie convinti di farcela, finché non hanno le lancette alla gola. Posso fare vari esempi e comincio da me.
Molti anni fa mi chiesero di fare un lavoro per un piccolo editore. Dovevo telefonare per proporre abbonamenti a una rivista musicale. Non dovevo rispettare orari precisi, ma sapevo che, per ottimizzare i risultati, sarebbe stato opportuno iniziare verso le 9. Siccome le mansioni compilative e promozionali mi hanno sempre ammazzato l’umore, invece di declinare l’offerta, accettai e lì iniziò il mio boicottaggio interiore.

Ogni volta che dovevo recarmi in quell’ufficio, riuscivo a tirarmi addosso così tanti imprevisti e inventare deviazioni che non arrivavo mai prima delle 11. Una volta era colpa della lavanderia e della spesa, un’altra della fila in posta o in banca, un’altra dell’autobus bloccato dal traffico, un’altra dovevo tornare indietro a prendere l’ombrello perché diluviava. Io per prima ero basita da me stessa e mi ripromettevo di non cascarci più, ma non funzionava. Ovviamente ho smesso dopo due mesi e lì ho capito che remare contro la propria indole produce solo disastri o risultati mediocri.
Il secondo caso emblematico è quello di un amico che spacca il minuto sul lavoro, ma arriva sempre in ritardo con gli amici. Mica roba di minuti eh, ma di ore, come quella volta che a una cena suonò il campanello che eravamo al dessert e l’ospite, seccatissimo, non gli aprì la porta di casa, anche perché l’altro aveva telefonato ogni mezz’ora per dire che stava arrivando. Qui la ragione è affettiva. Siccome ritiene gli amici la sua vera famiglia che lo amerà fino alla fine del mondo, ci mette quasi sempre alla prova. Lo perdoniamo perché ha un sacco di qualità e sappiamo che non lo fa per indifferenza, ma per sete di affetto. E poi, se non è riuscito a correggerlo lo psicanalista, chi siamo noi per cercare di educarlo? Poiché credo nella legge del contrappasso, mi sono ritrovata con un figlio ritardatario endemico.

Al liceo era la disperazione dei professori e le abbiamo tentate tutte: blandizie, bastone e carota, note, sospensione della paghetta. A un certo punto avevo anche messo gli orologi di casa avanti di mezz’ora. Niente da fare. Il suo demone era il risveglio perché carbura come un diesel. In compenso non ha mai perso un aereo o un treno, neanche all’alba, segno che nei momenti topici l’adrenalina lo salva. Negli anni ha accumulato una collezione di orologi da polso regalati da amici e parenti e ogni tanto se ne compra uno anche per conto suo, credo roso dal senso di colpa. Ma il suo subconscio è più forte di lui perché non li indossa quasi mai e, quando li cerca, non ricorda dove li ha infognati. Il caso è complesso e rappresenta l’eterno combattimento fra senso del dovere e ribellione alle regole. Il problema è che un ritardatario, che sia affettivo, selettivo o esistenziale, è esasperante come un muro di gomma perché, mentre lo aspetti, puoi solo arrabbiarti col vuoto.

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