Liberarsi dalla plastica è possibile, ma occorre prestare attenzione a quali sostanze vengono impiegate per produrre materiali biodegradabili. Ce ne sono alcune, chimiche e dannose per la salute. «Inquinamento da pfas e conseguenze sulla salute nel loro utilizzo come impermeabilizzanti nei contenitori per alimenti» è il titolo del webinar realizzato qualche giorno fa dalla Fondazione per lo studio degli alimenti e della nutrizione Fosan, in vista del convegno nazionale che si svolgerà il 6 ottobre a Roma. Ne abbiamo parlato con il presidente Francesco Maria Bucarelli.

Come nasce questa attenzione per i pfas?

Fosan è un ente di ricerca che lavora nell’ambito della scienza alimentare e molto nel settore della ristorazione. Il problema dei pfas è storico. Inizialmente è stato rilevato a livello ambientale, si veda il caso Veneto. I pfas hanno acquisito importanza per via dei materiali usati per gli alimenti. Il problema emergente è connesso alla sostituzione della plastica con materiali compostabili. La maggior parte della cellulosa che oggi viene utilizzata contiene pfas. Il fenomeno riguarda tutti, principalmente i bambini, si pensi al piatto monouso nelle scuole in polpa di cellulosa. Negli ultimi due anni con il covid e la sostituzione della plastica, è aumentato l’impiego di stoviglie monouso contenenti pfas e conseguentemente è cresciuta la nostra attenzione.

Siamo ancora in tempo per rimediare?

Non bisogna creare allarmismo perché oggi i livelli di contaminazione ambientale da pfas sono ancora moderati, tranne che nelle aree colpite dagli sversamenti, come il Veneto. Bisogna però intervenire in maniera precoce perché la bassa tossicità acuta lo rende particolarmente insidioso. Si creano situazioni di accumulo nell’ambiente e nell’uomo che possono generare patologie gravi. Essendo un interferente endocrino, è stata accertata la correlazione con tumori al testicolo, alla mammella, ipercolesterolemia, problemi alla tiroide.

Perché l’impiego è così diffuso?

I pfas sono dappertutto perché hanno caratteristiche chimiche eccezionali, ma se ne può fare a meno. Questo materiale impermeabilizza sia nei confronti dei grassi che dell’acqua. Si pensi alla carta da forno, che è uno dei prodotti che lo contiene, o ai piatti in cellulosa. Si stanno sviluppando delle tecnologie alternative. Purtroppo i pfas li troviamo in molti altri ambiti, vengono usati come disperdente per gli aerosol in campo agrario per l’aspersione dei fitofarmaci sulle culture, lo troviamo sui fondotinta, a volte addirittura nei puff respiratori per migliorare la qualità dell’aerosol. Vengono usati anche nell’abbigliamento. Inevitabilmente in fase di produzione si generano acque ricche di pfas, che devono poi essere purificate con carboni attivi. È elevato il rischio di sversamento e il trattamento con carboni attivi ha un enorme costo di gestione.

L’utilizzo è monitorato lungo tutta la filiera?

Neanche chi realizza il manufatto conosce la presenza di pfas. L’industria manifatturiera utilizza delle miscele di materie prime che inserisce nelle mescole, che sono sotto brevetto. In queste miscele vengono indicate soltanto le sostanze soggette a limite di restrizione. I pfas non rientrano tra queste. I materiali in cellulosa prevalentemente vengono prodotti in Estremo Oriente, dove non ci sono i nostri standard di controllo. Tra i maggiori produttori di polpa di cellulosa ci sono la Cina e il Vietnam. I nostri sistemi di controllo sono i migliori ma, non essendo i pfas nelle liste delle sostanze soggette a limiti di restrizione, non esistono dei limiti di cessione di pfas. Quando si fa il controllo di un materiale compostabile, verifichiamo solo il fluoro totale, non i pfas. Il bilancio costi-benefici sconsiglierebbe di continuare a usare queste sostanze.

A che punto sono le norme europee?

Abbiamo delle raccomandazioni dell’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, che stabiliscono un limite settimanale di assunzione di pfas di 4,4 nanogrammi per chilogrammo di massa corporea. È un inquinante ubiquitario, per cui non si può dire limite zero. Il nostro corpo in natura non ha pfas e fino al 1940 queste sostanze chimiche non esistevano. Porre dei limiti oggi è necessario perché significa contenere i rischi. Sono stati vietati alcuni pfas che erano considerati più resistenti dal punto di vista ambientale ma le sostanze oggi presenti, prodotte in maniera lecita, non sono soggette a restrizioni. Quella dell’Efsa è un’opinione scientifica ma non ha carattere giuridico. Ancora non c’è una reazione da parte del legislatore. Solo la Danimarca ha legiferato, stabilendo dei limiti ambientali e permettendo così di rilevare l’idoneità dei materiali utilizzati per gli alimenti. L’industria danese ne ha sviluppati alcuni privi di pfas. Quindi è possibile avere una qualità tecnologica accettabile.

Qual è l’obiettivo di Fosan?

Il nostro obiettivo è duplice: da una parte raccogliere da tutto il mondo scientifico informazioni tecniche affidabili, in modo da poter assistere il legislatore, anche quello nazionale, nella realizzazione delle normative sui pfas e sui materiali a contatto con gli alimenti. C’è già un disegno di legge su questo tema. Vorremmo intervenire dando delle indicazioni scientifiche per consentire delle scelte consapevoli. Il secondo obiettivo è quello di fare un’indagine su tutte le soluzioni tecnologiche disponibili per la sostituzione di questa sostanza chimica, a partire dai sistemi di analisi per potenziare la capacità di controllo. Il problema è anche analitico. Al momento sono carenti i laboratori accreditati per la determinazione di pfas. Un altro aspetto è quello della certificazione. Nell’attesa di nuove norme, occorre valutare se è possibile potenziare l’etichettatura dei materiali certificando in maniera privatistica l’assenza di pfas.