I dati presentati da Ispra nell’ormai consueto (ed è bene che lo sia) report annuale sul consumo di suolo richiedono un approfondimento che esplori la grana fine delle trasformazioni nel territorio entro cui rintracciare dinamiche ricorrenti. Quella delle città è una possibile chiave di lettura, anche perché le principali concentrazioni urbane si trovano sovente a rappresentare delle isole felici (o meno infelici) rispetto al restante territorio, in una fase di stagnazione del mercato immobiliare qual è quella che stiamo vivendo da oltre un decennio.

Il futuro post-Covid potrebbe riservarci mutazioni degli orientamenti, ma certo non leggibili nei dati illustrati da Ispra che tratteggiano il quadro a consuntivo alla scadenza del 2019: anno in cui abbiamo avuto, nel campionario dei capoluoghi regionali, scenari completamente differenti tra città – Roma in testa e, a seguire, i principali capoluoghi di Veneto, Puglia e Sicilia – in cui i processi urbanistici sono avvenuti ancora e prevalentemente con consumo di aree verdi. E, all’estremo opposto, città altrettanto popolose e dinamiche, come Milano, Firenze e Cagliari, che hanno chiuso il bilancio con un valore di consumo di suolo prossimo o pari a zero.

Senza voler in alcun modo generalizzare o ricercare improbabili affinità che accomunino città così diverse in questa (comunque straordinaria) prestazione territoriale, traiamo una sola considerazione: non si può dire che queste ultime siano città che soffrano più di altre di una congiuntura economica avversa. Semplicemente, hanno saputo trovare, talvolta con formule di strepitoso successo, percorsi di sviluppo e rigenerazione urbana che prescindono dalla spalmatura, concentrica o interstiziale, di nuove costruzioni. In altre parole, non è più vero che fermare il consumo di suolo significa fermare l’economia: forse è più vero il contrario.

Da questa considerazione, appare ancora più inaccettabile che l’Italia (ma anche l’Europa nel suo complesso) non disponga di una legge che tuteli il più prezioso tra i suoi capitali naturali, il suolo. Perché i suoli continuano ad essere indifesi dalle aggressioni emergenti. E tra queste sicuramente si profila la nuova e rischiosa stagione infrastrutturale: occorrerà vigilare affinché il Recovery Fund non finisca per produrre una nuova colata di grandi opere inutili o incompiute. Sul versante privato è invece il settore della logistica quello in grado di infliggere le ferite più dolorose, fin dentro le città, ma ancor più nei territori agricoli, per la tumultuosa domanda di grandi sedimi produttivi e magazzini con relative opere di accesso.

Nell’immobiliare logistico operano procacciatori di suoli ‘ready to build’, per nulla interessati ai processi di recupero di aree o immobili dismessi.

La mancanza di una legge che disponga regole utili a sviluppare strumenti agili per la negoziazione e la reimmissione sul mercato di aree dismesse è, precisamente, ciò che favorisce comportamenti speculativi e proliferazioni di capannoni incuranti del tanto, troppo abbandono edilizio che ingombra il territorio, concorrendo al suo degrado ambientale e sociale.
* presidente nazionale di Legambiente, ** responsabile suolo di Legambiente