I rider di Foodora «disconnessi» dopo la protesta per i diritti
Gig Economy «Sloggati». Così si sono definiti alcuni dei ciclo-fattorini di Foodora per descrivere l’atto di «disconnessione» dalla piattaforma digitale che ha regolato il loro lavoro di consegne in biciclette a Torino dopo la protesta sui diritti a ottobre. Ieri l'audizione in comune a Torino dei manager della multinazionale. L'azienda smentisce la "disconnessione". Sinistra italiana presenta un emendamento al Ddl lavoro autonomo in discussione in parlamento dal 27 febbraio
Gig Economy «Sloggati». Così si sono definiti alcuni dei ciclo-fattorini di Foodora per descrivere l’atto di «disconnessione» dalla piattaforma digitale che ha regolato il loro lavoro di consegne in biciclette a Torino dopo la protesta sui diritti a ottobre. Ieri l'audizione in comune a Torino dei manager della multinazionale. L'azienda smentisce la "disconnessione". Sinistra italiana presenta un emendamento al Ddl lavoro autonomo in discussione in parlamento dal 27 febbraio
«Sloggati». Così si sono definiti alcuni dei ciclo-fattorini di Foodora per descrivere l’atto di «disconnessione» dalla piattaforma digitale che ha regolato il loro lavoro di consegne in biciclette a Torino. È accaduto a una quindicina di «rider» che sono stati privati della possibilità di lavorare nella città piemontese per la multinazionale tedesca che organizza consegne a domicilio da ottobre scorso, quando è esplosa la prima protesta italiana sui diritti dei «gig-workers» occupati nell’economia dei «lavoretti» a cui hanno partecipato cinquanta lavoratori. La denuncia è stata fatta martedì 14 febbraio alla camera, durante la presentazione della proposta di legge sulla tutela dei diritti, primo firmatario Giorgio Airaudo (Sinistra Italiana).
«Sono stato sloggato via WhatsApp – ha raccontato uno dei rider – per aver espresso un parere contrastante con il manager dell’azienda. Noi lavoriamo con la pioggia e con il freddo, senza alcuna tutela». Ieri hanno confermato a Il Manifesto di avere presentato attraverso il sindacato Si Cobas la disponibilità a continuare a lavorare, ma non hanno mai ricevuto una risposta. Il dubbio è che l’allontamento sia avvenuto in ragione della protesta di ottobre. Un tempo lo si chiamava licenziamento o mancato rinnovo del contratto. Oggi si chiama «disconnessione»: il contrario del «log in», l’operazione che si effettua quando si esce da una piattaforma. Il lavoratore è come un interruttore che si accende e si spegne. Questa è la condizione che è stata denunciata dalla protesta e che ha prodotto un forte impatto sull’opinione pubblica che ha scoperto una condizione del lavoro a cui, fino a pochi mesi fa, mancavano persino le parole per essere raccontata. Merito dell’auto-organizzazione dei ciclo-fattorini che hanno saputo ideare una campagna comunicativa capace di dare una forma all’invisibilità a cui è costretto chi lavora per le piattaforme digitali. “Siamo una forza autorganizzata che ha avuto il supporto di parti della politica – puntualizzano i rider – ma non vogliamo legarci a una particolare”.
Ieri a Torino sono stati ascoltati dalla commissione consiliare Lavoro gli ad di Foodora Italia Matteo Lentini e Gianluca Cocco che hanno descritto così i rider: «mediamente giovani che cercano un’occupazione flessibile e compatibile con le loro esigenze, spesso di studio ma anche di altri lavori». I manager hanno confermato le modalità di pagamento: 4 euro lordi, 3,60 euro a consegna «con una media di due consegne l’ora», a cui si aggiungono «i contributi pensionistici, l’assicurazione Inail e una integrativa» previsti dal contratto co.co.co. Foodora non paga più all’ora (5,60 euro lordi a ora) perché la consegna garantirebbe ai ciclo-fattorini «un aumento di guadagno del 20%». Dopo le proteste, la retribuzione per ogni consegna è stata aumentata dalla società. L’azienda ha smentito le affermazioni dei rider “non rispondono alla realtà dei fatti.A nessun rider in protesta è mai stato revocato il diritto d’accesso all’app per manifestare la propria disponibilità”.
Interpellati sul punto i rider obiettano che Foodora paga così i suoi lavoratori, inquadrati come co.co.co., solo in Italia. Il pagamento, invece, dev’essere «misto»: va pagato cioè sia il tempo di lavoro, tra una consegna e l’altra, che gli scatti a consegna effettuata. I lavoratori chiedono l’abolizione del co.co.co. – e l’adozione di una forma contrattuale capace di garantire un monte ore al mese e coprire le tutele minime di un lavoratore parasubordinato. Queste persone si trovano in una zona grigia dove per l’azienda sono «freelance» che prestano un’opera occasionale, mentre in realtà sono eterodiretti e soggetti a una disciplina «flessibile». «I manager – afferma uno dei rider – non dicono che se non accetti due o più ordini puoi essere depennato». A differenza degli altri parasubordinati non godono delle tutele sociali di base. I «rider», proprio perché considerati «freelance», non hanno diritto a ferie, malattia o maternità, né disoccupazione. «Il sistema sancisce il ritorno del cottimo» ha detto Airaudo che parla di «caporalato digitale». «Sui lavoratori sono scaricati il rischio e i costi del lavoro» ha aggiunto Marco Grimaldi, capogruppo di Sinistra Italiana in regione Piemonte. Oltre alla proposta di legge, SI ha presentato un emendamento al Ddl lavoro autonomo, in discussione alla Camera dal 27 febbraio, che prefigura un rapporto di «lavoro subordinato».
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