Due sono stati i grandi registi amati da Goffredo Fofi: Luis Buñuel e Fritz Lang. Entrambi incontrati con sua grande soddisfazione. Nel documentario di Felice Pesoli Suole di vento, presentato al Torino Film Festival, scopriamo un aspetto poco noto sia di Fofi che di Buñuel, proprio legato al loro incontro. C’è una frase paradossale del regista, ripresa un’infinità di volte, Woody Allen compreso, «sono ateo grazie a Dio». Per questo acquista un sapore totalmente bizzarro l’incontro tra Goffredo e Luis. Ora bisogna sapere che Fofi, come molti ragazzini italiani, da bimbo serviva messa con grande devozione e sacrificio, alzandosi all’alba per svolgere questo compito. E all’incontro emerge il Confiteor, preghiera che allora si recitava rigorosamente in latino, con i due che si palleggiano le strofe uno con l’altro, con grande complicità, incompresa agli altri. Ma come? Uno spirito libero, irriverente, va per incontrare uno dei registi più iconoclasti che si possa immaginare e tra loro scatta una complicità basata sul Confiteor? Sì, e non c’è da stupirsi, perché Fofi è in qualche modo inafferrabile, inquieto e imprevedibile, tanto quanto il regista spagnolo.

QUELLA REALIZZATA da Pesoli è una lunga chiacchierata amichevole, i due si conoscono da diversi decenni, supportata da immagini di repertorio che contestualizzano quel che Goffredo racconta, senza domande o interruzioni. E si parte da Gubbio, dove è nato nel 1937, con la festa, i tre ceri e la divisione tra Sant’Ubaldo, il clero, San Giorgio, i guerrieri e Sant’Antonio (abate) i contadini. Babbo Fofi deve faticare per campare, e quando finalmente può, porta il piccolo in gita a Roma, ma vanno alle Fosse Ardeatine, dove da poco è stato compiuto lo scempio, quindi c’è ancora dolore, lacrime, puzzo, angoscia. Formativo, ma pesante per un bimbo. Che di lì a qualche anno va in Sicilia, per raggiungere Danilo Dolci, all’insegna della non violenza. Il Sud della fame, della siccità, dell’emigrazione, della miseria, della disoccupazione, loro lavorano per organizzare scioperi al contrario (non richiesti, asfaltano strade sterrate), accudiscono i bimbi, ma è complicato e tutto si compie quando assiste alla morte per denutrizione di una bimba. Morta, ha il tipico ventre gonfio, che esplode, letteralmente. Troppo. Un episodio che lascia un segno di classe, indelebile. Lui non è un intellettuale, dice, rifugge la parola come fosse un insulto, per esempio spiega come Totò fosse volgare e quindi piacesse al volgo, non agli intellettuali, e lui si divertiva un sacco con il principe. Racconta anche che a un certo punto non ne poteva più di essere tirato per la giacchetta a convegni e incontri su Totò, e allora per telefono intende rifiutare esasperato un ulteriore invito, ma ha fatto i conti senza il principe, che effigiato in un quadretto, proprio in quel momento decide di cadere dal muro dove è appeso. E Goffredo si rimangia il rifiuto.

SIAMO solo all’inizio dei suoi tanti spostamenti. Lo troviamo a Roma dove studia e scrive, ma partecipa anche come comparsa alla corsa delle bighe di Ben Hur, di William Wyler. Esilarante il suo racconto di comparse vestite solo in funzione di quel che la macchina da presa cattura e dei razzi di colore diverso sparati per far capire a tutte le comparse se zompare in piedi, urlare o altro. Poi Torino, con Raniero Panzieri, Paolo Gobetti, Ada Guidetti Serra, le riviste, i libri, la triste ma necessaria riflessione «a Torino i bambini non muoiono di fame», poi i volantini alla Mirafiori, gettati dagli operai, recuperati e ridistribuiti, il Pci che considera questi atteggiamenti populisti, non marxisti. E ancora, Parigi, dove lui è con Positif, «di sinistra, mentre i Cahiers e la loro politique des auteurs è di destra». Arriva anche a Milano quando il Pci afferma «la cultura siamo noi» lui replica «un cavolo». E sono Quaderni Piacentini, Ombre rosse, il Living Theatre, Carmelo Bene, Schifano, recensioni demolitrici di mostri sacri (su cui ora sorride), ma la generazione nuova che lo ha fatto sperare si è già affidata ai Sofri, ai Capanna, e lui vede già la fine, non prima di un’esperienza umanamente ricchissima a Napoli, 200 bambini alla mensa proletaria di Montesanto. Sempre percorrendo l’Italia in treno su e giù. Nel ’77 capisce che tutto è finito a Bologna, quando tutti i compagni dei gruppi sono seduti in piazza, separati, e un ragazzo scosso intima «fate finta?». Nessuno risponde.

E ANCORA riviste, perché si fa amicizia, squadra, lavoro di gruppo, ecco Linea d’ombra, Lo straniero, Asini, il fantastico e scontroso rapporto con la Morante, il «bisogna essere presenti al proprio tempo». Fofi lo è stato è lo è come rompicoglioni per vocazione e scelta, mai per lucro. Lui i soldi li detesta. È vero davvero.