«Supporta chi vuole volare, o diventerai cenere»: senza volerlo è Kobane a spiegare nel miglior modo possibile le ragioni dietro la pubblicazione di due libri sulla lotta di liberazione di Rojava. O meglio, è il cartello appeso sulla porta di una casa della città che ha resistito per 134 giorni all’assedio dello Stato Islamico.
Due libri, usciti a poca distanza l’uno dall’altro, che si completano: Kobane, diario di una resistenza (Edizione Alegre, pp. 192, euro 14) della staffetta di solidarietà Rojava Calling, campagna lanciata da collettivi, centri sociali e organizzazioni italiane che si sono date il cambio al confine tra Turchia e Siria e poi, dentro Kobane, per portare solidarietà alle popolazioni civili; e Kobane dentro, diario dal fronte della città assediata del giornalista freelance Ivan Grozny Compasso (Agenzia X, pp. 200, euro 14).

Per chi ha visitato quei luoghi – Diyarbakir, Suruc e Mesher, ultimo baluardo di confine tra Turchia e Siria, da cui il fumo dei combattimenti tra islamisti e Ypg a Kobane si vedeva, si sentiva – il racconto di Rojava Calling risveglia alla memoria strade, tende dei campi profughi, volti dei rifugiati. La moschea trasformata in centro di resistenza e vita comune, tè caldo che rompe il gelido inverno turco.

Le gang dello stato islamico

Il grande merito del diario della staffetta è il passo indietro compiuto dai volontari, poi autori del libro: mai protagonisti, danno voce alla gente e all’esodo del popolo kurdo siriano, raccolgono con minuzia di particolari i loro pensieri, descrivono l’organizzazione della resistenza fuori, al di là della frontiera. Perché, se Kobane è rimasta per mesi il fulcro e il palcoscenico della lotta di liberazione e della difesa del progetto di confederalismo democratico della Rojava, a pochi chilometri dal confine sorvegliato con brutalità dall’esercito turco intere comunità si sono mosse a sostegno della stessa battaglia.

Dall’organizzazione dei campi profughi (tutti, eccetto uno, gestiti dai comuni a sud della Turchia, in mano al Bdp e all’Hdp, partiti kurdi turchi) alla distribuzione degli aiuti, dal funzionamento degli ospedali fino al passaggio di uomini al confine, sfidando le pallottole della gendarmeria e dell’esercito turco. Amara e incessante è la critica rabbiosa alle autorità di Ankara, colpevoli di soffocare la resistenza di Kobane e di sostenere direttamente e indirettamente le gang dello Stato Islamico.

Manca nel diario della staffetta, come in quello di Ivan Grozny Compasso, un’analisi più ampia degli equilibri mediorientali, della rete delle connivenze e delle alleanze palesi e nascoste, degli interessi globali e della pesante interferenza della guerra fredda tra asse sciita e asse sunnita. Perché l’obiettivo è altro: raccontare la Storia e cosa l’ha mossa. A fare da sottofondo al racconto è l’ideologia cristallina dietro la lotta di Rojava: a scontarsi nel campo di battaglia kurdo è la democrazia diretta, l’autodeterminazione, il socialismo e il femminismo, contro il neoliberismo degli Stati-nazione (chiaramente e colpevolmente rappresentati da Ankara) e il fascismo dello Stato Islamico. Per questo, ripetono come un mantra i kurdi, si sono prese le armi: perché questa non è una lotta tra una popolazione assediata e il suo assediatore, ma è una battaglia di tutta la Siria (all’interno della quale Rojava intende rimanere allargandole il proprio modello politico) e di tutta l’umanità.

Un modello condiviso

«Tutti gli uomini e le donne che credono nella libertà dovrebbero essere qui», dice in un’intervista della staffetta Salih Urek, storico militante del movimento di liberazione kurdo e assiduo frequentatore delle carceri turche. Ed ecco che la resistenza di Kobane supera i confini della regione di Rojava, nel solco di quell’internazionalismo della lotta che pareva retaggio del secolo passato. Scorrendo le pagine del diario di Rojava Calling emerge con chiarezza la volontà di assurgere Kobane a modello, senza la tentazione di inquinarne l’ideologia: la staffetta per Kobane è partita non per fare propria una lotta distante e altra, alla ricerca di un’ancòra a cui aggrapparsi nell’assenza assordante di un movimento forte di critica e pressione alternativa dentro la sinistra italiana. È partita perché il modello Kobane va condiviso in quanto patrimonio delle sinistre mondiali.

Le stesse ragioni hanno mosso il giornalista freelance Compasso, entrato a Kobane nel dicembre dello scorso anno. Il racconto di Ivan incalza, dalla decisione di partire fino all’ingresso nella città assediata. Il racconto dei cinque giorni trascorsi dentro l’assedio scorre via ora morbido, ora teso, quasi nervoso. Ma allo stesso tempo rigenerano l’autore e il lettore con squarci di vita, volti reali, momenti di stallo, raid aerei, corpi senza vita. Qua alla voce della gente e dei combattenti, meno presente rispetto al diario di Rojava Calling, si contrappone il conflitto e la descrizione della vita alla fronte: una vita che va già ricostruita, mentre viene distruttta. Compasso si sofferma sulla minuziosa gestione delle necessità quotidiane, dalla raccolta dei rifiuti al funzionamento della sola clinica rimasta in piedi in città fino alle lezioni di scuola per i pochi bambini rimasti a vivere a Kobane.

C’è sempre un pallone tra le righe del racconto: calciato dai bambini che si concedono una pausa nel rimbombo degli scontri, evocato dal campo di calcio abbandonato poco fuori la città, sognato dai combattenti divisi tra la Roma e il Real Madrid. E ci sono tante donne, in una descrizione che evita il facile e vendibile stereotipo pompato dai media internazionali una volta scoperte le unità di difesa femminile di Kobane, le Ypj. Kobane dentro racconta la battaglia delle donne e le difficoltà che ancora serpeggiano in una società che aspira a rinnovarsi ma il cui rinnovamento non è completo: Ivan le fa parlare e le donne non nascondono (evitando con sapienza una comoda cortina di propaganda) gli ostacoli alla realizzazione del modello immaginato dal leader, Abdullah Apo Ocalan.

Ma il modello c’è, è radicato e condiviso. Per questo va raccontato.