Dodici anni fa nella prestigiosa sede di Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia a Roma, si tenne la mostra «Europunk» curata dal suo direttore Éric de Chassey e dedicata alla «cultura visiva» del punk in Europa dal 1976 al 1980. L’esposizione era fatta di centinaia di reperti incandescenti: volantini, spezzoni video, ritagli di fanzine, opere d’arte, copertine di dischi. Senonché, quando il visitatore faceva ingresso nella sala che avrebbe dovuto essere dedicata alla scena punk italiana si trovava di fronte a una singola teca. Conteneva la riproduzione in scala di un traliccio dell’alta tensione, con un uomo in passamontagna che vi si arrampicava circospetto. L’opera raccontava la tragica fine di Giangiacomo Feltrinelli. Il messaggio era chiaro: alla fine dei Settanta, mentre, in Europa si diffondeva un messaggio eversivo attraverso la musica e la produzione artistica, in Italia tutto ciò assumeva un senso diverso dal momento che dalle nostre parti la guerriglia era un’opzione tutt’altro che metaforica, supportata anche militarmente da un editore di primo piano come Feltrinelli.

Questa immagine ci aiuta ad individuare il nesso tra tensioni sociali e sottocultura che sta al cuore del punk e della vicenda artistica di Cristiano Rea: disegnatore, grafico e soprattutto batterista punk.

Bisogna partire da un presupposto: il punk ha salvato da morte sicura, e sarebbe stato un delitto compiuto a forza di assoli di chitarra infiniti e da rullate di batteria noiosissime, la carica vitale del rock’n’roll delle origini. Lo ha fatto grazie alla capacità di derivazione situazionista di recepire le immagini e le parole circolanti, rimasticarle e metterle in tensione con la realtà.

«Nel 1977, su una televisione privata locale, un improbabile video-Dj mi sbattè in faccia la copertina del 45 giri Sheena is a punkrocker dei Ramones, appena pubblicato in Italia dalla Rca – racconta Cristiano – Fu la musica, ma ancora di più la foto che li ritraeva, a fulminarmi. Tutto tornava: i miei immaginari eroi degli anni Cinquanta in giubbotto nero e scarpe da ginnastica erano lì adesso, nel 1977 a New York, e suonavano una musica mai sentita prima!». Ecco in che modo l’artista folgorato trovava un metodo. Così come i quattro ragazzotti di Forrest Hills infilavano riff dei Fifties dentro canzoni al fulmicotone, Rea riarrangia istintivamente il fumetto e le avanguardie artistiche dentro contesti nuovi: ecco perché i suoi disegni ci paiono familiari eppure perturbanti.

Lester Bangs, il più grande dei giornalisti musicali dell’epoca, si trovò a raccontare in diretta e con entusiasmo gli esordi e l’affermazione del punk. Ma vi riconobbe il rischio genuino del nichilismo: che conducesse soltanto ad accumulare rabbia, senza la possibilità di poterla sfogare. Tutta la storia narrata nel libro di Cristiano Rea, dal Uonna Club ai centri sociali fino ai movimenti globali, racconta della possibilità di raccogliere questa sfida. Se la vita non ha significato è perché quel significato va costruito, disegnato e suonato, giorno dopo giorno. Questo ci raccontano la semplicità difficile a farsi delle canzoni fatte di tre accordi e le opere di un «pank» alla ricerca della sua rivoluzione.