Quando Christiane F. «la ragazza dello zoo di Berlino» appare per la prima volta sullo schermo, nel 1981, col visetto emaciato della quindicenne Natja Brunckhorst (poi sceneggiatrice per la tv tedesca), diventa subito un’icona. E persino a chi non aveva visto il film di Uli Edel, o letto il libro, autobiografia della «vera» Christiane divenuto subito un best seller, bastava quel nome per evocare un mondo. Di lei, di Christiane Vera Felscherinow, si persero invece un po’ le tracce, pure se la sua vita dopo il successo la scopriamo in un secondo libro Io, Christiane F. – La mia seconda vita (Rizzoli), nato come il primo dalla conversazione con una giornalista, qui Sonja Vukovic, nel 2013 – e che però come tutti i «crescono»non ha avuto lo stesso appeal.
Christiane dice cosa era accaduto, ricorda la sua prima volta in America, l’amicizia con Nina Hagen, una carriera musicale col compagno Alexander Hacke, chitarrista degli Einstürzende Neubauten, nel duo Sentimentale Jugend , l’incontro con Bowie, un arresto per detenzione di stupefacenti, un lungo soggiorno in Grecia, la nascita del figlio nel 1996, di cui le verrà tolta la custodia, la sua battaglia infinita per riottenerla. E lo fa con autenticità, denunciando ancora una volta cosa era stata e cosa è la conseguenza dell’eroina tra i giovanissimi – su cui oggi come allora si tace.

NON ERA «romantico» nemmeno il racconto di sé ragazzina tredicenne tra droga, «rota», violenze familiari, prostituzione, vagabondaggi nelle strade berlinesi in Christiane F. – Wir Kinder vom Bahnhof Zoo. Era la regia di Edel a smussarne le asprezze tra i visi d’angelo dei suoi protagonisti, le luci pallide, l’attrazione del Sound, la cantina dove ballavano strafatti, David Bowie che firmava la colonna sonora in una «fotografia»di una metropoli che ormai non esiste più, perduta nella gentrificazione velocissima post-Muro del «Go East!».
Chi erano quei ragazzi e ragazze che per una dose vagavano nell’ovest della città divisa? Berlino sfavillava come l’affermazione dell’occidente contro il «buio» dell’est sovietico, quando ci si arrivava dopo ore e ore passate in vagoni dai quali non si poteva scendere il grigio dell’est svaniva nelle luci del KadeWe, a un passo dallo zoo, dove Christiane e i suoi amici provavano a dire qualcos’altro: un dolore, un disagio, un desiderio soffocato?

 

IL 1981 DEL FILM, e della metropoli senza servizio di leva che affascinava i giovani in tutta Europa, non è però il 1975 della storia di Christiane, gli anni della Rote Armee Fraktion, del terrorismo, della violenta repressione, del processo di Stammheim (su cui proprio Edel nel 2008 ha fatto un orrendo film)- Christiane dirà più tardi che il film aveva messo da parte gli abusi di suo padre e l’inquietudine della sua generazione.
Se Uli Edel mischiava le sequenze temporali per trasformarle in immaginario, con un certo ammiccamento, va anche detto però che adolescenti come Christiane e i suoi amici non se ne erano mai visti fino allora, e mai si era udita la narrazione dell’eroina dalla loro voce in prima persona – per quanto mediata – come avvenne sulle pagine della ragazza. È soprattutto questo che è rimasto indelebile nel tempo, fino a rendere la storia di Christiane F. metonimia dell’eroina stessa. Ogni volta che si parla di droghe e di giovanissimi – specie poi se diventano cronaca «nera» – compare «lo zoo di Berlino» di Christiane: vale se si muore in una casa sfasciata o se si spaccia a Rogoredo, quarant’anni dopo forse più il film che il libro è il riferimento «a effetto» i luoghi comuni sull’argomento e il voyeurismo compresi.

NON C’È DA STUPIRSI se Amazon ha deciso di farne una serie con lo stesso titolo, Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, partita da qualche giorno su Prime – la regia è di Philipp Kadelbach, l’ha scritta Annette Hess. Ci sono state diverse critiche sull’operazione – specie sui giornali tedeschi, la «Taz» ha insistito sull’inutilità di tale remake – «Era davvero necessario dare un nuovo linguaggio a materiale di quarant’anni fa che ha influenzato un’intera generazione per inserirlo in un presente che appare privo di senso?» si legge sul quotidiano tedesco. Sia il regista che gli autori hanno risposto però che non erano interessati al «remake» appunto ma a esprimere i sentimenti universali dei giovani, e che per questo hanno cercato di mascherare il più possibile i riferimenti agli «originali». In effetti il risultato non ha nulla a che fare col film di Edel: se appunto questo «esaltava «gli effetti speciali» delle emozioni, la serie è una specie di sfilata «heroin chic» – ovviamente vintage – di ragazzetti perfetti nella metropoli del mito – quale? – i cui passi sono accompagnati da accuratissima colonna sonora e atmosfera contemporanea.
Christiane F (Jana McKinnon) e i suoi amici si aggirano in locali, feste, notte scivolando leggeri negli stereotipi che fissano il ritratto degli adolescenti seriali di adesso – al di là delle storie che attraversano. In cui tutto è accessorio, anche l’eroina.