«La ragione per cui scrivo così spesso della zona a est del Lago Huron», disse una volta Alice Munro a commento della singolarità (e apparente monotonia) della sua opera, «è che la amo», così, semplicemente. A dispetto della sua fuga ventennale, e poi della scarsa importanza storica di quella patria regionale, della povertà dei suoi valori estetici e architettonici, o della convenzionalità paesaggistica (con l’eccezione dell’imponente lago), o – ancora – a dispetto dell’inconveniente alternarsi di estati torride e inverni da eschimesi, Munro si dichiara «intossicata» dalla terra piatta e rurale della Huron County, a tratti paludosa, lacustre o ormai sfoltitamente boscosa, costellata da cittadine o fattorie di umile stile coloniale, da cui spuntano esili e austeri campanili in falso gotico.
Wingham, dove è nata, Clinton, dove ora vive, colonizzate a metà Ottocento per lo più da scozzesi presbiteriani e poi da irlandesi cattolici (con non poche tensioni di classe sociale e religione) sono lontane parecchie miglia dal primo centro metropolitano che è London, più a sud in Ontario, dove Munro ha studiato per breve tempo, e dove le capitò, per caso, di iniziare la sua singhiozzante carriera letteraria. Il punto è – dice Munro – che in quell’area eletta a centro universale, dove ci sono pulsanti, grette piccole città che compaiono nei suoi racconti – per esempio la [/ACM_2]Hanratty in Chi ti credi di essere o la Jubilee in Lives of Girls and Women – lei si sente «a casa». E soprattutto di quell’area conosce la «lingua», come Faulkner conosceva la lingua del suo Sud, o Hemingway del Michigan, e Joyce di Dublino.
Bisogna infatti parlare la «lingua» di un luogo, di una geografia, speciale o anonima che sia per tradurne il senso, il senso geometrico (mappale) e quello più nascosto, quello intimo da «romance di famiglia», da «scena primaria», non privo, anch’esso, nella sua pochezza di superficie, di aura misterica. C’entra anche – in questo caso – il mistero dei margini, notoriamente vuoti, eppure vibranti di sfaccettature di vita umana – banale, comune, non straordinaria – al quale Munro miracolosamente approda nei suoi racconti: quattordici raccolte, che raramente abbandonano quel centro provinciale (eccettuata la parentesi di Vancouver dovuta a un primo matrimonio, o la saltuaria Toronto), e in cui Munro sa restituirci, senza mai avvizzirla, l’eccezionalità nella relegazione.
Alla «marginalità» che caratterizza il mondo dei suoi racconti si è spesso imputata la mancanza del riconoscimento che le era dovuto da tempo: il fatto che la sua opera risulta collocata ai confini regionali di un paese (il Canada) dal passato letterario modesto è certamente un fattore. E c’è poi il limitarsi alla forma del racconto, un genere solitamente ritenuto ancillare rispetto all’abbraccio universalizzante del romanzo; e il circoscrivere la rappresentazione a una normalità qualsiasi, sia pure dotata di non rari risvolti perturbanti. Di conseguenza, l’imperdonabile ritardo nella scoperta di questa scrittrice ormai più che ottantenne è stato ammesso, di recente, in modo quasi corale.
Tutto giusto, naturalmente, senza attardarci a aggiungere che Munro, in quanto donna, appartiene a una classe culturalmente e dunque anche artisticamente marginale, per tradizione e pregiudizio. Lo afferma lei stessa in una bella osservazione sulle sue maestre statunitensi – Welty, McCullers, O’Connor, Willa Cather: «Avevo la sensazione che solo le donne riuscissero a scrivere di cose marginali, strane, anomale… Sono arrivata alla conclusione che era quello il nostro territorio, mentre il grande romanzo sulla vita reale era territorio degli autori di sesso maschile… Sapevo che c’era qualcosa, qualche modo di vedere il mondo, proprio dei grandi autori, da cui ero tagliata fuori, ma non capivo bene cosa fosse». Insomma, nel suo caso, la marginalità è stata penitenza e riscatto. Ma ha avuto la meglio infine la tenacia di un’arte e di una visione della vita esemplari. E non è certo un caso che ai personaggi femminili Munro rivolga uno sguardo speciale. Come la sua generazione – e in particolare le donne canadesi impegnate, al tempo degli esordi di Munro, a dar lustro, con il loro giovane genio, a una ex colonia appena affrancata, nel 1967 – le adolescenti, e poi le giovani donne, e quindi le donne mature che popolano i suoi racconti, seguono lo stesso percorso di fuga dal territorio di nascita per correre, liberate dalle strette dell’arretratezza culturale, verso la scoperta di nuovi sentieri di vita, a loro stesse prima negati.
Il ciclo narrativo di questa scrittrice è, a rivederlo oggi, il grande romanzo di una nazione e della sua anima femminile che si afferma su binari nuovi. In questo senso, l’autobiografia romanzata di Munro è anche biografia collettiva. Ma tutto in Munro sarebbe troppo personale, sebbene sia più corretto dire – come fa Marisa Caramella nella sua prefazione al Meridiano Mondadori dedicato alla scrittrice canadese – che le sue sono «storie inventate dal vero», una formula che la scrittrice condividerebbe, se accettiamo quanto dichiara nell’introduzione a Castle Rock, i cui pezzi, pur «non essendo vere e proprie memorie, restavano più personali degli altri racconti, anche di quelli scritti in prima persona. In quei casi avevo sì attinto al materiale del mio privato, ma poi l’avevo lavorato come mi pareva. Perché il mio intento vero era quello di scrivere una storia. Mentre nei racconti fuori raccolta avevo fatto una cosa diversa. Più simile a quella che si verifica quando si redige un memoir: avevo esplorato una vita, la mia, secondo criteri di non troppa rigorosa attualità. Mettevo al centro me stessa e di quell’io centrale scrivevo, il più meticolosamente possibile. Le figure di contorno però prendevano vita e colore e cominciavano a fare cose che non avevano fatto nella realtà». È proprio ciò che in genere fa un grande scrittore, uno capace di trasfigurare l’esperienza personale verso sconfinamenti imprevedibili, perché di pertinenza del dono dell’arte, con le sue sorprese visionarie.
Che con il tempo (gli anni, l’età, gli acciacchi, l’esperienza, la maestria nelle pratiche della vita) l’attenzione di Munro si sia concentrata non tanto sulle miserie di campioni di umanità, quanto sulla loro insondabile crudeltà – e meno sulla crudeltà della natura (un topos stagionato dell’immaginario canadese) – lo si intravede come un filo rosso nelle opere più recenti – Troppa felicità, Nemico, nemico, amante, In fuga. Le sue ultime creature, sempre molto ordinarie, siano esse uomini e donne, lasciano il segno: abitano un mondo irragionevolmente impietoso, e impietoso fuori dai confini di ogni condizione regionale. Sono dotate di una parola spesso ambigua e deviante, una parola che rinuncia a esibire i suoi fondali segreti, che si astiene (perché spesso anch’essa non sa) dall’ultima parola, quella che il lettore facile pretende. E questo proprio perché Alice Munro è tra coloro che possiedono la visione saggia e umile di chi, con l’arte della scrittura, è arrivato alla consapevolezza della relatività di ogni chiave di accesso agli abissi della vita.