Come al solito gli Oscar rappresentano il culmine di una «stagione dei premi» che a Hollywood dura molte settimane. Prima che si aprano le buste sul palco dell’Academy, vi saranno stati una mezza dozzina di antecedenti. Avranno detto la loro i giornalisti della stampa estera (Golden Globes), i critici americani (Critics Choice Awards), il sindacato degli attori (Sag Awards), gli sceneggatori (WGA) Registi (DGA )e produttori, più l’accademia britannica (Bafta). Su questi premi si basano i pronostici Oscar, sempre tenendo conto che se era già impossibile escludere imprevisti nel giudizio dei membri quando erano 6000 e rotti, ora che il gli «accademici» sono quasi 10000 risulta ancor più arduo. Negli ultimi cinque anni, in seguito alla campagna #OscarsSoWhite e le forti critiche per la schiacciante preponderanza di uomini bianchi nei suoi ranghi, l’Academy ha invitato più di 3500 nuovi membri (composti per il 45% da donne e il 36% minoranze etniche). Questi Oscar – i primi dopo la mobilitazione nazionale di Black Lives Matter dell’anno scorso, rifletteranno certamente il contesto di generale rivendicazione di maggiore «diversity» nella principale industria culturale del paese.

STANDO ai precedenti questo dovrebbe essere l’anno di Nomadland e di Chloe Zhao. Di fronte la latitanza di grandi produzioni, il minuscolo film targato Searchlight (la divisione «specialty» della Fox ora passata sotto l’egida Disney) ha debuttato a Venezia l’anno scorso prendendosi il Leone d’oro e raddoppiando subito a Toronto col premio del pubblico. Basato sull’indagine giornalistico-sociologica di Jessica Bruder il film di Zhao ibrida linguaggi narrativi e documentari come già il suo (splendido) The Rider, restituendo la realtà lirica e la dignità delle persone «volontariamente emarginate» che lo popolano. Zhao conferma lo sguardo singolare di regista cinese in grado di cogliere un’essenza americana, e si è dimostrata grande favorita vincendo una mezza dozzina di precedenti premi per la regia.
Fra coloro che potrebbero insidiare il suo film The Father (l’impeccabile ritratto di Alzheimer in soggettiva di Florian Zeller con un monumentale Anthony Hopkins), l’amarissima satira femminista Promising Young Woman di Emerald Fennel, Sound of Metal dell’esordiente Darius Marder con Riz Ahmed batterista punk che perde l’udito, la memoria famigliare di agricoltori immigrati coreani in Arkansas, Minari, Mank di David Fincher su Herman Mankievicz, il modesto The Trial of the Chicago 7 sul processo omonimo dopo le contestazioni del 68 a Chicago e il bel Judas and Black Messiah di Shaka King, la storia di Fred Hampton, carismatico leader delle Pantere Nere assassinato dal Fbi a 20 anni (come Daunte Wright freddato «per sbaglio» la scorsa settimana a Minneapolis).

GLI ULTIMI due titoli riflettono la prolifica produzione di film sulla storia della contestazione e della militanza in America, riscoperta nell’attuale contesto politico in cui si agitano scheletri e fantasmi della storia nazionale, specialmente in tema di cattiva coscienza razziale. Molti concorreranno nelle categorie e tecniche e per gli attori. Ecco dunque United States vs Billie Holiday sulla campagna diffamatoria e ricattatoria dell’Fbi contro la cantante blues. Ma Rainey’s Black Bottom, un testo di August Wilson prodotto da Denzel Washington, anche questo costruito attorno ad un’ ipotetica seduta di registrazione della bluesista degli anni ’20. Infine c’è A Night in Miami, esordio di Regina King, veterana attrice di film e serie, che immagina una notte passata in un motel di Miami da Malcolm X, Sam Cooke, Cassius Clay e il giocatore di football Jim Brown.Si tratta di un momento fertile quindi per il cinema afroamericano, chiaramente invigorito dal fermento politico e che sarà probabilmente protagonista di questi premi.

NON PERVENUTI invece, film come The Mauritanian (e la bella interpretazione di Tahar Rahim), Da 5 Bloods di Spike Lee, White Tiger adattato da Rahmin Bahrani dal romanzo di Aravind Adiga, Let Them All Talk di Soderbergh e il soprendente I’m Your Woman di Julia Hart, un «crime movie» molto anni ‘70 e raro lampo di genio in un anno avaro e asfittico che tutti, compresa l’Academy, non vedono l’ora di archiviare.