Fino a qualche anno fa, raggiungere il Bangladesh dal Bengala occidentale, indiano, era un’esperienza un po’ disorientante. Le dieci ore di treno che tagliano orizzontalmente la rigogliosa campagna bengalese tra Calcutta e Dhaka lasciavano il passeggero in quella che sembrava una «città gemella» ferma a qualche decennio prima.

Un viaggio nel tempo, né oltreconfine né nello spazio, che restituiva una megalopoli caotica, decadente, ultrapopolata da milioni e milioni di bengalesi del tutto simili in costumi, abitudini culinarie e riferimenti culturali al medesimo popolo «al di qua» del confine, guardando dall’India. Il Bangladesh, 180 milioni di persone che abitano un paese poverissimo di infrastrutture e di lavoro ma ricchissimo di materie prime (gas naturale su tutte), da chi ci è stato era considerata una bonaria anomalia tra i grandi stati islamici dell’Asia meridionale: burqa rarissimi nelle città, meno rari nelle campagne; percezione di pericolo islamico che rasentava lo zero; gente entusiasta di aver a che fare con un «videshi», uno straniero che per un motivo o per l’altro (spesso business o cooperazione internazionale, raramente turismo) aveva deciso di fare il percorso inverso dei milioni di migranti bangladeshi in cerca di lavoro e di venire qui tra noi, nell’«amar sonar bangla», il «nostro Bangladesh dorato», come recita l’inno nazionale scritto dal premio nobel Tagore (bengalese).

Un panorama negli ultimi cinque anni mostruosamente trasformato da una striscia di violenze e tensioni interne che, passate in gran parte in sordina al mondo che si occupava di Isis e terrorismo in Occidente, ha creato i presupposti per un’avanzata dell’estremismo islamico inedita nel paese.

Siamo nel 2010 e la prima ministra Sheikh Hasina, a capo dell’Awami League (partito di centrosinistra espressione della maggioranza islamica laica del paese), decide di aprire a scoppio decisamente ritardato un processo per crimini di guerra per i fatti del 1971, quando il Pakistan orientale si staccò sanguinosamente da quello occidentale diventando, appunto, Bangladesh.

Alla sbarra vennero presentati numerosi membri dei partiti di opposizione – in particolare di Jamaat e Islami (JeI), sigla estremista islamica accusata anche di terrorismo e contatti con l’estremismo pakistano – colpevoli di collaborazionismo con le forze pakistane. Gente come Abdul Kader Mullah, il «macellaio di Mirpur», e Motiur Rahman Nizami, entrambi leader di JeI sentenziati a morte dalla giustizia di stato, senza contare le accuse accessorie a vari quadri del Bangladesh nationalist party (Bnp), partito decisamente più islamista di Awami, accusato di alleanze scellerate coi «traditori della patria». Lo zelo del sistema giuridico, usato come arma contundente per annientare l’opposizione capitanata da Zia Khaleda, mise le basi per una guerra a intensità crescente tra le due anime della popolazione bangladeshi, sfociando nel 2013 nel movimento di piazza Shahbagh, quando migliaia di studenti e manifestanti laici chiedevano che venisse fatta giustizia col sangue per i criminali di guerra.

Accontentati dal tribunale per i crimini del ‘71, le stesse anime di Shahbagh si riscoprirono presto bersagli della vendetta dell’estremismo islamico, che con azioni mirate iniziava a colpire professori universitari, blogger «razionalisti», fedeli hindu, cristiani, attivisti Lgbtq fino ad allargare il cerchio, più recentemente, assassinando i cooperanti Cesare Tavella e il giapponese Kunio Hoshi nel 2015. Si trattava di aggressioni fulminee a colpi di machete, con piccoli commando di due o tre persone pronte a darsi alla fuga in motocicletta, facendosi inghiottire dall’anonima sovrappopolazione bangladeshi.

Le turbolenze interne del Bangladesh hanno fatto e fanno gola alle organizzazioni terroristiche islamiche internazionali, con al-Qaeda – in declino costante – e Isis a combattere una guerra mediatica a distanza, nel tentativo di accaparrarsi ex post, spesso entrambe per un singolo evento, le rivendicazioni di omicidi fino ad ora ascrivibili allo scontro violento tutto interno ma, con un tweet o un lancio di agenzia, immediatamente inglobate nel fenomeno del terrore globale, al fianco di Parigi, Istanbul, Il Cairo, Bruxelles o Orlando.

Così facendo – e nel caso bangladeshi l’agenzia di intelligence privata Site presieduta da Rita Katz è passibile di critiche quantomeno deontologiche – le caratteristiche peculiari del terrorismo locale bangladeshi sono state sistematicamente appiattite dall’ansia di incasellamento superficiale di cui gli osservatori internazionali soffrono quando chiamati a raccontare le periferie del mondo, anche islamico. Si è configurata quindi una situazione disperante di «al lupo al lupo», coi media internazionali a sbraitare dell’«Isis in Bangladesh» e le autorità locali a negare ostinatamente, ostentando un’impermeabilità bangladeshi all’ondata dell’estremismo purtroppo ora drammaticamente smentita dai fatti di Dhaka.

La strage alla Holey Artisan Bakery è arrivata infatti a due settimane dalla controffensiva della polizia bangladeshi, che in una settimana aveva arrestato migliaia di persone sospettate vicine agli ambienti terroristici locali. In tutta risposta, il commando che ieri notte ha ucciso 20 persone nel quartiere diplomatico di Gulshan ha dimostrato che il terrorismo bangladeshi è in grado di organizzare e portare a termine un’azione complessa e ben calibrata come un sequestro di persona, facendosi beffe delle forze di sicurezza locali. Che ora, con un Bangladesh mai così irriconoscibilmente pericoloso, non potranno più negare la presenza di Isis o al-Qaeda nel paese e, si spera, accantoneranno le diatribe politiche nazionali per combattere una minaccia che ha già snaturato il «nostro dorato Bangladesh».