Pietro Castellitto. Un nome già scritto nel cinema italiano. Per diversi motivi, in primis la famiglia. Mamma è Margaret Mazzantini, scrittrice, sceneggiatrice, attrice, babbo è Sergio Castellitto, attore e regista. Per questo all’annuncio del suo esordio come sceneggiatore, regista e protagonista sembrava giusto mostrarsi diffidenti, prendere le distanze verso l’ennesimo raccomandato con tanto di pedigree a garantirne la purezza della razza italica-culturale.

ERRORE, perché Pietro invece, pur senza rinnegare nulla delle sue origini, (e come avrebbe potuto?) deve avere fatto tesoro della sua unica esperienza di interprete estraneo ai film famigliari: È nata una star di Lucio Pellegrini, tratto da un romanzo di Hornby. Un lavoro sbilenco, ma Pietro vi interpreta il figlio di una famiglia normalissima che si dà al porno, oltretutto con discreto successo grazie a una strumentazione fuori norma. Forse da quella piccola follia gli è balenata l’idea per questa follia più grande: I predatori. E ha fatto bene Domenico Procacci con la Fandango a produrre un film rifiutato da molti altri che evidentemente non riescono a uscire dagli schemi del preordinato e predigerito. Presentato e anche premiato a Venezia per la sezione Orizzonti, è uno degli esordi più stravaganti e inconsueti degli ultimi anni. La storia non è riassumibile, se non nel ribellismo sarcastico del giovane rampollo di buona famiglia, babbo medico, mamma regista, che intende diventare bombarolo dopo che è stato escluso dal suo docente che lo detesta dall’ambita riesumazione del corpo di Nietzsche.

E tutto questo si scontra incidentalmente con le vicende di una famiglia neofascista. Due schieramenti diversi, quasi opposti, che però si sfiorano e si specchiano nelle miserie della nostra realtà.
Castellitto esaspera tutto, elabora la sua commedia con un’invidiabile faccia tosta che lo porta lontano da ogni cliché. Se lo può permettere perché lavora per accumulo mattoncino dopo mattoncino per poi spostare l’asse rendendo tutto ancora più eccentrico. Si ride, anche se molto amaro. Indimenticabile poi una seduta a tavola famigliare, situazione già ampiamente praticata dal cinema, che qui però diventa irresistibile e dissacrante. La commedia percorre strade nuove, i coatti romani diventano maschere, così come i progressisti benestanti e tutti rifuggono dalla banalità. L’inatteso è dietro ogni stacco. E funziona.

GRANDE LAVORO anche sugli attori che circondano il giovane Pietro nella sua avventura. Peccato solo che i tempi siano grami e di conseguenza punitivi per tutto il cinema che fatica a ritrovare il suo pubblico vessato dalla pandemia. Perché il tourbillon di battute bizzarre e strambe di Castellitto sceneggiatore, il lavoro di ricerca visiva e di (de)costruzione di Castellitto regista, unito a quell’interpretazione unica di Castellitto attore avrebbero meritato tutta l’attenzione possibile, andando ben oltre le storie da anemia mediterranea di troppo cinema giovane italiano. E non solo italiano.