C’è Virgil, il moldavo, che si nasconde sotto il pianale di un camion per lasciarsi alle spalle la povertà e la repressione del disciolto socialismo reale. C’è Assan che scappa, con l’unica figlia ancora in vita, travestita da maschio, da una Mogadiscio in piena guerra civile e preda di saccheggi e stupri e su cui si erge l’ombra minacciosa del fondamentalismo. E c’è infine Chanchal, che fugge da Dacca, la capitale di un Bangladesh poverissimo e colpito da cicloni ricorrenti che spazzano via cose e persone. Le loro traiettorie dolenti alla ricerca di una nuova occasione, finiranno per incrociarsi nel 1992 nella cittadina di Velleneuve le Roi, ex comune operaio alle porte di Parigi dove incontreranno altre privazioni, violenze e rifiuto, ma anche la possibilità di guardare con speranza al futuro.

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Già inviato di guerra, tra il 1975 e il 1995 ha seguito alcuni dei conflitti più cruenti del pianeta, dall’America Centrale ai Balcani, tema cui ha dedicato nel 2013 la raccolta di reportage Le diable au creux de la main, e fondatore dell’agenzia di stampa e società di produzione Capa, Pascal Manoukian racconta con il romanzo Derive (66thand2nd, pp. 238, euro 17) le storie di alcuni di coloro che nel corso degli ultimi vent’anni hanno scelto di raggiungere la Francia per mettersi in salvo e iniziare una nuova vita. Un libro che con tenerezza e determinazione descrive la genesi degli attuali fenomeni migratori ma che invita a riflettere sui tanti errori compiuti dall’Europa su questo tema.

Mentre in Francia si consuma l’ultima vergognosa pagina della vicenda che riguarda la jungle di Calais, con «Derive» lei torna al 1992 per descrivere il debutto delle grandi migrazioni. Perché tale scelta?

Come giornalista ho coperto alcuni dei fronti di guerra più sanguinosi per più di 25 anni e nel frattempo mi sono accorto che, a partire dagli anni Novanta, si cominciava sempre più spesso a morire lungo le rotte dell’immigrazione: nelle imbarcazioni di fortuna che traversavano il Mediterraneo, nel deserto attraversato da chi veniva dal centro dell’Africa, un po’ ovunque per sfuggire ai trafficanti di esseri umani. Di tutto ciò l’Europa non conserva memoria, come se la cronaca di quanto accade ora facesse dimenticare che sono in realtà più di vent’anni che i migranti rischiano ogni giorno la vita per arrivare qui. Perciò ho voluto raccontare le storie dei «pionieri» di queste rotte, di coloro cioè che hanno inaugurato quelle vie lungo le quali le persone non hanno poi più smesso di mettersi in viaggio, mettendo a rischio la loro stessa esistenza.

Ho scelto di affrontare queste vicende da una prospettiva storica per far capire che non si tratta di un’«emergenza», bensì di un fenomeno della nostra era e che come tale va affrontato.

Ambientare il libro all’inizio degli anni Novanta le ha consentito di fotografare il contesto politico e sociale nel quale le nuove migrazioni hanno preso forma?

Per molti versi si. I personaggi del romanzo si confrontano con i primi passeur che saranno poi sostituiti da strutture criminali: vedono i pescatori libici abbandonare le loro vecchie occupazioni per dedicarsi al trasporto dei migranti, assistono al sorgere dei gruppi jihadisti che, come Boko Haram o Al Qaeda nel Maghreb islamico, finiranno per taglieggiare quanti passano nel territorio da loro controllato o assumere direttamente il controllo del traffico delle persone che traversano il deserto per raggiungere la costa del Nordafrica e tentare la traversata alla volta dell’Europa.

Il 1992 segna anche l’inizio delle azioni del fondamentalismo musulmano in Afghanistan e in Somalia, cui seguirà la fuga di molte persone da quei paesi e, soprattutto, la fine delle speranze per molti cittadini dei paesi dell’Est europeo che avevano visto nella caduta del Muro una promessa, presto disattesa, di benessere e di miglioramento delle loro condizioni di vita. Anche in questo caso, per molti, la sola prospettiva resterà quella di emigrare in Occidente. Infine, si tratta dello stesso periodo in cui, a partire dai paesi membri dell’Unione Europea, il Vecchio Continente si doterà con gli accordi di Schengen di un unico confine esterno, cambiando così per sempre il proprio rapporto con i migranti.

Eppure, le reazioni negative, il razzismo e la violenza contro i migranti descritti in «Derive» assomigliano in modo sinistro a quanto accaduto a Calais e al clima di ostilità verso gli «stranieri» che domina nel dibattito pubblico, specie ora che ci si prepara alle elezioni presidenziali di primavera. La Francia non ha imparato nulla da storie come quelle raccontate nel suo romanzo?

Temo di no. La vicenda di Calais rappresenta un vero scandalo per la Francia, per il modo in cui si è formata la jungle e per come si è scelto di risolvere la questione esclusivamente in termini repressivi. Si sarebbe dovuto trattare in tutt’altra maniera questa vicenda: esaminare con ordine le richieste dei migranti e dei rifugiati e nel frattempo accogliere costoro in modo civile e non lesivo della loro dignità, visto che si tratta molto spesso di persone che hanno già sofferto per riuscire ad arrivare fin qui.

Da francesi non ci si può che vergognare del modo in cui il nostro paese sta trattando sempre i rifugiati e gli immigrati. Anche perché la chiusura di oggi è un vero e proprio tradimento rispetto alla tradizione di accoglienza di questo paese e al fatto che rivendica ancora di essere la culla dei diritti dell’uomo. Io stesso appartengo ad una famiglia armena che è emigrata in Francia negli anni Venti per sfuggire alle persecuzioni dei turchi. Ed il mio non è certo un caso isolato. Milioni di francesi sono figli o nipoti di persone che hanno trovato rifugio e hanno potuto crearsi una nuova vita in questo paese, anche se sembra se lo siano dimenticato.

Purtroppo, la situazione si è fatta via via sempre più difficile con il passare degli anni e oggi, con la prospettiva che torni a governare la destra, e con il Front National sempre più forte, è difficile guardare con ottimismo al fututo.

Accanto alle difficoltà e sofferenze conosciute lungo il loro viaggio verso l’Europa, ciò che colpisce di più nelle storie dei protagonisti di «Derive» è la loro apparente invisibilità agli occhi degli abitanti della cittadina francese in cui si sono stabiliti. Quasi la loro condizione di «clandestini» finisse per negargli non solo dignità e diritti, ma anche il semplice diritto all’esistenza. È questo il grande rimosso del dibattito sull’immigrazione?

Le nostre città sono formate da due mondi che coabitano anche se spesso non si incontreranno mai. Due realtà che sono divise dal fatto di possedere o meno dei documenti di identità, «il permesso» per risiedere in un determinato luogo. Eppure, quando andiamo al ristorante ci sono decine di persone che lavorano in cucina per preparare quello che mangeremo e che alla fine del loro turno torneranno a nascondersi, a rifugiarsi da qualche parte, in qualche piccola jungle in mezzo al bosco come quella che descrivo nel libro, per paura di essere fermati, arrestati ed espulsi. E lo stesso accade in molte officine, magazzini, negozi, cantieri. In Francia come in Italia come nel resto d’Europa. Sappiamo tutti che ci sono queste persone che è probabile non conosceremo mai; con le quali incrociamo uno sguardo sfuggente per strada senza mai scambiere una parola. Per paura, ignoranza o pregiudizio. O a causa di tutte queste cose insieme. Per questo, invece che scrivere un reportage o un saggio sull’immigrazione ho voluto raccontare le loro storie attraverso un romanzo. Perché c’è nella letteratura qualcosa di intimo che stabilisce immediatamente una sorta di complicità, di relazione, tra chi legge e i personaggi di una determinata storia che continuano spesso ad accompagnarci anche quando abbiamo chiuso un libro.