Li vediamo immoti, dentro le teche di vetro, quasi-esseri dalle forme antropomorfe, bestiali o astratte. Ma tutte queste creature meccaniche hanno gli occhi o qualcosa di simile, sensori attraverso i quali percepire la realtà che li circonda e riconoscere l’essere umano per interagirci in maniera diversa. Forse nella loro spenta immobilità di oggetto museale stanno sognando «dickiane» pecore elettriche o la libertà. Qualcuno potrebbe anelare al dominio del mondo, come i robot impazziti di Kyashan, ma è più probabile che si struggano della loro presente inutilità, che la loro intelligenza artificiale sopita suggerisca ai loro circuiti inerti la malinconica volontà di tornare a muoversi e ad agire per gli scopi per i quali furono programmati. Tuttavia nessuno può ipotizzare quali «pensieri» meta-numerici si agitino sotto le superfici di plastica, gomma e metallo che compongono il loro aspetto. Forse, purtroppo, c’è solo uno sconsolante nulla che si perpetua nell’attesa di una catartica attivazione.
Sono i robot da compagnia in mostra al Palazzo Alberti Poja di Rovereto, in Trentino, fino al 27 agosto. Non sono stati inventati per sostituire l’essere umano in un qualsivoglia lavoro, ma per il suo diletto, per intrattenerlo, divertirlo e non farlo sentire solo e per questo non si può che provare simpatia e empatia per questi automi .
MACCHINE E AUTOMI
Si tratta di una mostra affascinante, di sicuro impatto per un pubblico di bambini e dei tanti adulti che sono cresciuti con Goldrake e Mazinga, nipponiche macchine dell’immaginario che ribadiscono la loro bellezza avveniristica, in questo caso solo estetica perché si tratta di magnifiche statue in metallo, tra i veri automi esposti.
Massimo Triulzi, il giornalista di tecnologia, esperto di videogiochi e di animazione giapponese che ha ideato e curato la mostra spiega il titolo dato all’allestimento, ovverosia Io, Robotto: questo deriva da I, Robot, romanzo fondamentale sulla robotica di Isaac Asimov, e dalla pronuncia giapponese di Robot, ossia «robotto». « La parola robotto perde le sue accezioni meccaniche e tecnologiche e diventa Kawai, che in giapponese significa carino, adorabile e amabile. È una macchina che assume un compito sociale», scrive Triulzi nel prezioso catalogo illustrato dalle belle, umanistiche fotografie di Valentino Candiani.
DESIGN ANTROPOMORFI
Tra il piccolo esercito di robot esposti ci sono un ancestrale Karakuri Ningyo del periodo Edo (1603-!867), ossia una marionetta che si muove quando si poggia sul suo vassoio una tazza di tè; esemplari del tenerissimo Furby, buffo cuccioletto virtuale da accudire; l’inquietante Roboraptor programmato per essere vorace come un vero predatore e attaccare gli oggetti in movimento; quelle vere e proprie esistenze sintetiche canine in grado di apprendere e comunicare che sono gli Aibo di Sony. Poi ci sono robot in grado di servire calici di birra fresca, di suonare o di gareggiare. C’è persino lo stupefacente Asimo di Honda, dal design antropomorfo, in grado di camminare su diversi territori, di saltare, di calciare un pallone e di esprimersi con la voce di un ragazzo.
È suggestivo immaginare che sia proprio l’intelligentissimo Asimo, di notte, lontano dagli occhi dei visitatori, a risvegliare le altre macchine per dare vita a party meccanici invisibili per noi umani. Sarebbe bello e giusto, almeno in un romanzo di fantascienza o in un film della Pixar. Ma ci raccomandiamo, Asimo, non dimenticare le Tre Leggi della Robotica definite dallo scrittore che ha ispirato il tuo nome.