Per la «qualità del suo contributo alla fondazione dell’economia ecologica, la sua analisi pionieristica delle relazioni tra ambiente ed economia, il suo approccio interdisciplinare e il suo ruolo attivo nella promozione della giustizia ambientale» l’economista ecologista catalano Joan Martìnez Alier è stato insignito del premio Balzan 2020 per le sfide ambientali. Tra i fondatori dell’economia ecologica, l’autore de L’ecologia dei poveri e di fondamentali studi sulla giustizia ambientale, Martìnez Alier ha potuto ricevere il premio dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella – causa pandemia – solo la scorsa settimana a Roma all’Accademia dei Lincei, dove lo abbiamo incontrato.

Professor Martìnez Alier, su cosa vertono i suoi studi di economia ecologica e politica ecologica?

Noi guardiamo all’economia da un punto di vista fisico, studiamo i flussi di energia e di materia delle società, il metabolismo sociale, e guardiamo al valore dell’ambiente, non solo quello crematistico, cioè il valore monetario, ma anche quello culturale, ecologico e della sussistenza delle persone. Faccio un esempio: un’azienda che estrae carbone in India può dire che il valore monetario di quel carbone è superiore a quello del territorio (es, foreste, fiumi) e delle persone che ci abitano e ne traggono la loro sussistenza, che sono molto povere e vivono magari al di fuori dell’economia monetaria. Dunque, da una parte abbiamo carbone e denaro, dall’altra sussistenza e sostenibilità di un territorio, magari una foresta che esiste da molto tempo e la vita delle persone, la loro cultura. Come si possono confrontare? Non c’è un unico sistema di valutazione. L’ecologia economica ne è consapevole. Da questa riflessione deriva la nozione di scambio ecologico iniquo e di debito ecologico dei paesi del Nord del mondo nei confronti di quelli del Sud.

Durante le COP degli ultimi anni si è parlato di «loss and damage» (perdite e danni), senza arrivare ad un accordo. Crede che una compensazione dei paesi ricchi per i danni ambientali sia possibile?

Arrivare a compensare davvero sarebbe come riconoscere il debito ecologico, ma questo gli stati sviluppati non lo vogliono. La compensazione che hanno in mente è più simile ad un’elemosina, una mancia, o se vogliamo una tangente, per tenere buoni gli stati sottosviluppati. In ogni caso, sempre meglio che niente.

Quando le aziende si riferiscono ai danni ambientali li chiamano «esternalità». È questo uno modo per dare un valore ai danni procurati alla natura?

Le chiamano esternalità proprio perché non figurano nei bilanci aziendali. Alcuni economisti pensano che andrebbero inserite nei sistema dei prezzi e contabilizzate. Questo accade solo in alcuni casi: per esempio, in una causa giudiziaria in cui si deve misurare il danno ecologico causato da uno sversamento di inquinanti in un fiume. Però non è la regola. Nella realtà, le aziende non pagano mai per le esternalità. Alcune società non potrebbero nemmeno esistere se dovessero pagare le esternalità negative. Noi stiamo per pubblicare un articolo su Impregilo Salini, una multinazionale italiana delle costruzioni. Anche se nel 2020 ha cambiato nome in WeBuild, la responsabilità per i danni che ha arrecato non svanirà. In questo articolo c’è una lunga lista dei luoghi dove ha operato e una descrizione dei danni che mai ha pensato di riconoscere.

L’India, che può certamente vantare un credito ecologico nei confronti dell’Occidente, è stata accusata di aver indebolito l’accordo della Cop26 di Glasgow per non aver accettato di abbandonare l’uso del carbone. Per lei l’India è vittima o colpevole?

Vittima. Vittima del colonialismo, per le risorse sottratte dall’Inghilterra. Vittima anche del cambiamento climatico. Se i 7,5 miliardi di abitanti della terra avessero le emissioni pro-capite dell’India, non ci sarebbe l’effetto serra. L’India ha altri problemi: un’alta densità di popolazione, e una forma di colonialismo interno. Alcune regioni procurano bauxite, ferro, carbone al resto del paese a basso prezzo con danni per le comunità tribali, molto ingiusti. Dove questo accade sorgono movimenti di protesta per la difesa dei fiumi e delle foreste. A Glasgow l’India ha fatto bene a presentarsi come creditrice di un debito ecologico che nessuno vuole pagare, anche se non mi fido granché del premier Modi. Questo non toglie che debba lentamente abbandonare il carbone.

I paesi in via di sviluppo non devono fare gli stessi errori che abbiamo fatto noi.

Certo. C’è stato un periodo in cui non c’era consapevolezza, ma almeno dall’Earth Summit di Rio De Janeiro del 1992, nessuno può dire di non sapere. Da allora ci sono Paesi che hanno molto aumentato le loro emissioni. Anche l’Africa è un continente verso il quale abbiamo un gran debito ecologico, anche più dell’India. L’Africa dovrebbe reclamarlo molto di più. Non si tratta solo di chiedere compensazioni, ma che il Nord del mondo ammetta le sue colpe e decida di comportarsi in modo diverso. Come ha fatto la Germania dopo la seconda Guerra mondiale: ha riconosciuto la colpa e cambiato il sistema educativo. Pensi che in Spagna c’è una destra che ancora va fiera della scoperta dell’America e mai si è interrogata sul genocidio dei popoli indigeni. Il problema è che siamo indottrinati nella cosiddetta civilizzazione europea. Quando a Gandhi chiesero cosa pensasse della civilizzazione europea, lui rispose: sì, sarebbe un’ottima idea.

Una transizione ecologica è possibile?

Una transizione ecologica deve avvenire. Avete mai pubblicato sul manifesto la curva di Keeling, quella che mostra l’andamento delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera? Come la curva pandemica, va resa piatta se vogliamo continuare a vivere su questo pianeta. Non è possibile vivere in un mondo con 8/10°C in più. L’Artico fonderebbe, e così l’Antartide. Il mondo deve cambiare il sistema energetico e lasciare i combustibili fossili sotto terra: alcuni movimenti come Oilwatch in Nigeria o Acción Ecológica in Ecuador lo chiedono dagli anni Novanta con lo slogan leave oil in the soil.

Crede che le fonti di energia rinnovabile risolveranno la crisi climatica o creeranno nuovi conflitti di tipo estrattivo?

Per ridurre della metà le emissioni dai combustibili fossili entro il 2050 non possiamo non aspettarci una decrescita dell’economia, forse non in proporzione, ma in una certa misura, nei Paesi ricchi, perché la crescita economica è legata ai flussi di energia e di materiali. Finora non abbiamo assistito ad alcuna de-materializzazione dell’economia, né ad un calo dei consumi di energia e neppure alla trasformazione dell’economia da lineare a circolare. Dunque, le nuove energie, incluso il nucleare se Macron vince, useranno altre materie, dal legno di balsa per le pale eoliche, al litio per le batterie su cui già sono sorti conflitti.

Quindi la decrescita è una necessità?

Pensare che la decarbonizzazione avvenga senza effetti sull’economia è assurdo. L’economia deve decrescere nei paesi ricchi e in una certa misura sostituire i sistemi energetici. Fortunatamente la popolazione non crescerà ancora per molto. Le proiezioni oggi dicono che il picco sarà nel 2060.

Cosa pensa della nozione di sviluppo sostenibile?

Una formula per nascondere la realtà. In spagnolo la chiamerei una giaculatoria, come dire ora pro nobis.

Lei ha annunciato che investirà la somma del premio Balzan per la ricerca per incrementare l’Atlante della giustizia ambientale (ejatlas.org) che ha creato 10 anni fa. A cosa serve questo strumento?

Nell’Atlante abbiamo mappato e descritto circa 3.500 casi di conflitti ambientali che nascono là dove l’economia industriale, nella versione capitalistica come in quella cinese, si spinge ai limiti della terra cercando sempre nuove merci. Non so dire se questi conflitti saranno efficaci per cambiare il sistema. Ma almeno l’Atlante li rende visibili anche agli uomini ricchi che non sanno quasi nulla di quello che accade nel mondo reale e contribuisce, io spero, a portare l’ecologia politica al centro del dibattito politico.

Ora che tutti riconoscono la necessità della decarbonizzazione e i rischi associati ai cambiamenti climatici, su quali altri versanti dovrà impegnarsi l’universo ambientalista?

Ci sono tante altre questioni, come la perdita di biodiversità, per esempio. L’Ipbes, che lavora come l’Ipcc, ma per la biodiversità, sta facendo un buon lavoro. Stanno lasciando da parte l’idea di attribuire un valore monetario ai servizi ambientali, parlando invece di contribuiti della natura al benessere. L’idea di attribuire un valore monetario ai servizi ecosistemici, quelli che la natura ci fornisce gratuitamente, doveva servire, nelle intenzioni di chi ha fatto questi calcoli, a dimostrare quanto fosse importante la salvaguardia di tali ecosistemi, in modo che lo capissero anche i ministri. Ma se i ministri capiscono solo il valore monetario, io dico: cambiamo i ministri! Sono 7 i planetary boundaries (limiti planetari) che sono stati violati e identificano altrettanti problemi ambientali di portata globale, il clima è solo uno di questi. Ci sono anche la gestione delle acque dolci, la deforestazione, l’acidificazione degli oceani, l’alterazione del ciclo del fosforo. Di quest’ultimo, chi ne parla? Eppure è alla radice del conflitto nel Sahara occidentale.