Abbiamo un calcolo quotidiano dei numeri della pandemia. Le cifre vengono aggiornate ora per ora e sono ripartite in contagiati, ricoverati, guariti e deceduti. Al momento in cui trascrivo i dati, le sedici di giovedì 11 febbraio 2021, l’ultimo bollettino sull’andamento dell’epidemia segnala, nel nostro paese, il numero di 336 deceduti nelle ultime ventiquattro ore, mentre 12.956 sono i nuovi contagi.

Dall’inizio dell’emergenza sanitaria, a far data dal febbraio dell’anno 2020, quando il morbo fu identificato in Italia e se ne accertarono le prime vittime, i contagiati assommano a 2.668.266. I 336 morti di oggi si aggiungono così ai 93.000 uccisi dal Corona Virus 19 in dodici mesi, in Italia. Al momento, su una popolazione di circa 20 milioni e 550 mila europei si è giunti a contare 501 mila e 531 decessi. Nel mondo le vittime del virus, in un anno, sarebbero almeno 2 milioni e 363.528.

I numeri sono letti uno via l’altro nei notiziari radiofonici e, con bella evidenza, mostrati nel corso di ogni telegiornale e su tutte le reti televisive. Vengono registrati in tempo reale nei circuiti della comunicazione digitale. Sta di fatto che ciascuno di noi e, in principio tutti nel vasto mondo interconnesso via social, è costantemente messo al corrente dei numeri. Ha accertati numeri a disposizione.

Sono questi i numeri di una pandemia, dunque sono numeri che si riferiscono, uno per uno, ad altrettante, una per una, vicende di malattia e di morte. Ma è possibile giungere da quei numeri a quei vivi e a quei morti? Come accogliere, assimilare, tradurre e vivere e non semplicemente registrare noi, uomini e donne, quei numeri che semplicemente registrano come quantità la vita e la morte delle donne e degli uomini colpiti o uccisi dal contagio?

Tento una parziale e sommaria risposta. Il resoconto, comunicato ora pe ora delle cifre, lascia quanti siamo esposti a contrarre il virus in una apprensione, in una angoscia che chiedono di essere dominate. Un primo, spontaneo impulso ci spinge ad attenerci a comportamenti che sono di elementare circospezione: badiamo ad esser vigili, evitando quanto più è possibile i contatti. I contatti non necessari, ci diciamo, e i superflui.

Presto ci accorgiamo, con una punta di stupore, che quei contatti superflui e non necessari sono essenziali alla realizzazione dei nostri equilibri quotidiani e li determinano positivamente, quanto i contatti che non possono essere per nessuna ragione sospesi. Constatiamo che la nostra esistenza quotidiana si riduce e si circoscrive entro certi perimetri obbligati, che è consigliabile non varcare.

È come esposta ad un minuto processo di mutazione, apparentemente piccole variazioni che, prendendo campo, ci impongono di reimpostare, per dir così, tratti salienti del nostro vivere. Un vivere, dunque, che subisce sospensioni e rallentamenti, e si esprime nella costrizione di atti limitati, e secondando reiterazioni che inducono un generale tono astenico nell’arco delle giornate. Un indebolimento delle relazioni, delle attività, fin dei gesti.

E dei ragionamenti e dei giudizi. Giorno dopo giorno, ci troviamo ad aver mutato le consuetudini non solo nelle relazioni con gli altri, ma i modi, le espressioni, i desideri, le volizioni che costituiscono e motivano le attitudini nostre verso noi stessi, quell’operare e sentire quotidiano che ciascuno conosce per il suo e che è assicurazione dei suoi equilibri.

Ho inteso accostare due condizioni effettuali, che contrassegnano l’attuale andamento che il contagio determina nel corso dei mesi, ovvero: la comunicazione dei numeri dei malati e dei morti per come agisce inducendo uno stato d’animo che, credo, possiamo riconoscere diffuso intorno a noi e, facilmente, ritrovare in noi stessi.