Alcuni batteri sono dei temibili agenti patogeni ma altri svolgono funzioni straordinarie: sono capaci di vivere in condizioni estreme, di vivere in simbiosi con gli animali e i vegetali e adesso risultano fondamentali anche per contrastare varie forme di inquinamento, grazie alla capacità di degradare le sostanze organiche, naturali e di sintesi. All’Università di Milano-Bicocca si sta lavorando a un processo che impiega batteri particolari per eliminare i residui di plastica che rimangono nella frazione organica dei rifiuti. Una volta messo a punto, sarebbe il primo trattamento italiano di trasformazione e degradazione microbiologica della plastica a base di polietilene, applicabile negli impianti di gestione dei rifiuti. Il progetto è stato ideato da un team di ricerca tutto al femminile, guidato da Jessica Zampolli, assegnista di ricerca presso il laboratorio di Microbiologia diretto dalla professoressa Patrizia Di Gennaro del Dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze.

Quali segnali hanno portato il suo laboratorio di microbiologia a intraprendere questo ramo di ricerca?

Patrizia Di Gennaro: Studiamo da molti anni le capacità dal punto di vista degradativo dei batteri nei confronti dei contaminanti ambientali, che spesso sono tossici, cancerogeni, in generale pericolosi per l’uomo. Negli ultimi anni ci siamo preoccupati dei contaminanti emergenti, fra cui le plastiche, e facendo delle prove ci siamo resi conto che alcuni batteri che stavamo studiando erano in grado di digerire anche la plastica a base di polietilene. Il 65% delle plastiche prodotte globalmente, per esempio tappi, imballaggi, pellicole, è costituito da polietilene, che ha una struttura chimica di base simile a quella degli idrocarburi naturali e forse per questo i batteri lo riconoscono. Sono batteri naturali, non modificati geneticamente, che riescono a ridurre il polietilene ad anidride carbonica e acqua.

Come si articola il progetto?

Jessica Zampolli: la prima fase è quella di verifica sperimentale del processo. Dagli impianti di trattamento dei rifiuti verranno raccolti e trattati i materiali plastici di scarto a base di polietilene che rimangono nella frazione organica e in laboratorio si valuterà l’efficienza nella biodegradazione messa in opera dai microrganismi che abbiamo selezionato. Contemporaneamente due professoresse di Chimica dell’Ambiente, Elena Collina e Marina Lasagni, ci supporteranno nell’analisi dei sottoprodotti, per valutare a che livello di degradazione si arriva e individuare le condizioni che la rendono più efficiente. La seconda fase è quella della ottimizzazione: l’intenzione è di acquistare, grazie ai fondi raccolti con il crowdfunding, un bioreattore dove monitorare in tempo reale i parametri della degradazione.

Una volta terminata la ricerca, quali saranno i suoi impieghi?

Patrizia Di Gennaro: la fase conclusiva è quella dello studio di fattibilità, per una futura applicazione in un impianto di smaltimento di rifiuti. L’idea è che questi microrganismi possano essere utilizzati direttamente nell’impianto, nella frazione organica dove finiscono comunque anche sostanze non biodegradabili. La cosa interessante è che questi batteri si trovano bene in quell’ambiente dove la componente organica è contaminata da plastiche, perché attaccano entrambe le matrici. Questo ci permette di risolvere due problemi, quello dei residui plastici che rimangono in mezzo all’organico e quello delle plastiche miste, che sono miscelate nell’organico. Per fare un esempio, tanti sacchetti che il cittadino crede biodegradabili sono invece dei copolimeri, non degradabili al 100%. Non sono compostabili, cioè totalmente disintegrabili, e sono parzialmente biodegradabili. Questo tipo di residui è una delle fonti delle famigerate microplastiche.

Impieghi di questo tipo sono già attivi?

Patrizia Di Gennaro: In Italia si tratterebbe del primo impianto a funzionare in questo modo. Per quanto riguarda il resto del mondo, non siamo a conoscenza di applicazioni pratiche. Quello che è sicuro è che vi sono molti gruppi di ricerca che lavorano sulle capacità degradative dei batteri nei confronti di tali materiali. Per esempio nel 2016 si è scoperta la capacità di demolizione enzimatica da parte del batterio Ideonella sakaiensis del Pet, il tipo di polietilene più utilizzato per le bottiglie. I nostri batteri non sono in grado di attaccarlo.

Quali sono le prospettive offerte dai batteri mangia-plastica? E i limiti?

Jessica Zampolli: Le prospettive sono di affrontare un problema piuttosto grave: la quantità di rifiuti non biodegradabili contenuta all’interno dell’organico è il 5% del totale e quasi i due terzi sono costituiti da plastica (il restante è costituito da inerti e metalli). I limiti principali sono dati dalle tempistiche: tutti gli impianti hanno necessità di smaltire quantità di rifiuti enormi in temi rapidi, quindi per essere competitivi dobbiamo migliorare i tempi di digestione. Fortunatamente il crowdfunding che abbiamo attivato su Produzioni dal Basso e su BiUniCrowd, il programma di finanza alternativa dell’Ateneo, sta andando molto bene. In sole 36 ore abbiamo raggiunto il primo obiettivo economico, 9500 euro che ci ha garantito il supporto di Corepla. Anche il secondo obiettivo economico, 13 mila euro, è stato raggiunto, quindi possiamo comprare il bioreattore. Abbiamo deciso di andare avanti con la campagna (che durerà una cinquantina di giorni) e tutto ciò che verrà raccolto sarà utilizzato per migliorare al massimo la fase di ottimizzazione e fattibilità.