Francesco Guccini ci ricorda che, nell’immaginario condiviso, gli «eroi son tutti giovani e forti». Non di meno, sono ancora di più apprezzabili se morti nell’esercizio delle loro straordinarie ed epiche gesta, fatto che li rende, per un qualche verso, sovraumani, ovvero al di sopra dell’uomo. Che, come tale, evidentemente, è invece da intendersi solo nella sua mediocrità. La Prima guerra mondiale, per le proporzioni immani e il carattere catastrofico che la connotarono, sembra avere divorato quegli uomini (e quelle donne) che ne furono travolti in grande numero.
Di tanti individui rimane spesso un solo nome, quando qualcuno ha pensato che valesse la pena ricordarne la memoria, perlopiù segnalato dalla toponomastica locale o da monumenti collettivi privi di anima. La vera dimensione del conflitto, una volta esauritosi, è stata infatti l’anonimato e il silenzio. Di contro al fervore, spesso identificato con alcune persone, trasformate in personaggi pubblici, che invece accompagnò le fasi di preparazione, mobilitazione e coinvolgimento negli scontri armati.
Per molti coscritti, nella guerra italiana del 1915-1918, il problema non fu tanto come l’entrare in scena, essendo a ciò obbligati da una leva che non risparmiava nessuno, a partire dalle campagne, bensì il come uscirne, dopo avere subito le torsioni di un’esperienza collettiva sospesa tra catarsi e catastrofe. In altre parole, come potere elaborare il lutto per l’identità perduta tra trincee e combattimenti, facendo invece i conti con ciò che si era divenuti e dando a questa trasformazione un nome nonché, soprattutto, un significato. Paolo Brogi, giornalista e scrittore, nel suo Eroi e poveri diavoli della Grande Guerra (Imprimatur editore, pp. 206, euro 15), si interroga sul rapporto tra la soggettività di quanti erano stati lecatapultati sui vari fronti, in una sorta di iperrealtà a sé stante, dove la cognizione del tempo e dello spazio venivano completamente stravolte dall’esperienza quotidiana della morte, e le risorse cognitive, mentali ed emotive utilizzate per fare argine a questa totale dissonanza esistenziale. Identifica quindi due categorie estreme, e come tali apparentemente opposte, negli «eroi» e nei «folli». Padri nobili, i primi, e figli degeneri, i secondi, del trauma bellico. I punti di contatto sono in verità tanti quanti quelli di diversificazione. Una ventina di ritratti, a partire dagli arditi, le truppe d’assalto costituite nel 1917, passando per il Milite ignoto, Francesco Baracca, Cesare Battisti, Enrico Toti (mutilato civile, mai incorporato ufficialmente nell’esercito ma celebrato, dopo la sua morte, alla stregua di un martire), Renato Serra così come gli «scemi di guerra», gli alienati da shock, danno riscontro in tal senso. La linea di divisione tra eroismo e follia era sottile e, a volte, imponderabile. A dettarla, prima ancora che il carattere dell’individuo, e con esso la sua volontà, erano le circostanze che si imponevano su di lui.
L’esperienza della Grande guerra, infatti, è stata ricordata da molti combattenti come una vicenda dove lo spossessamento di sé, la perdita della propria autonomia, l’imporsi della casualità nel determinare, giorno dopo giorno, la differenza tra il sopravvivere e il morire, erano tra i fattori quotidiani che di più incidevano nel mutamento della considerazione del proprio ego da parte del singolo individuo. Dalla reazione a questo stato di cose derivavano quindi quelle condotte o quelle iniziative più strettamente personali, da non attribuirsi all’incondizionata adesione alle logiche di un esercito elefantiaco e burocratizzato, dove le corvée erano invece prevalenti rispetto alla stessa azione bellica. L’eroismo, o ciò che a conflitto terminato sarebbe stato celebrato come tale, nasceva pertanto anche da questa scissione interiore tra gli obblighi alienanti del servizio e la ricerca di uno spazio dove ridisegnare la propria individualità.
La Grande guerra, vissuta in un primo tempo, soprattutto dagli appartenenti alle classi superiori, come l’occasione per esprimere la propria soggettività, si era infatti ben presto tramutata in un’officina della violenza, una catena di montaggio della ferocia gratuita e insensata. Non di meno, la lunga durata del confronto armato, con il 1917 divenne un problema che gli stessi comandi tematizzavano nei termini di una sua irrisolvibilità per la sola via bellica. Contrastava con questo stato di cose il bisogno, alimentato da una propaganda rivolta ai militari come anche ai civili del «fronte interno», di dare fiato alle trombe dell’esempio eroico. Ma i veri eroi, come i fatti ci insegnano, dell’apologia guerresca non hanno mai saputo bene cosa farsene. Trattandosi, la loro vita, di altra cosa dalla maschera costruita ad arte su di essi.