Il viaggio della juta (detta anche Canapa di Calcutta) – fibra tessile vegetale, riciclabile e biodegradabile al 100%, coltivata prevalentemente in India e Bangladesh – non è poi così diverso da quello dei coloratissimi tessuti stampati wax print, erroneamente identificati come «africani».

UNA MATERIA VIVA che attraversa i continenti, frutto dell’ibridazione del colonialismo. Contenitori di memorie passate e presenti, entrambi offrono spunti interessanti per una riflessione sulla società che esula dai luoghi comuni. Per Ibrahim Mahama (Tamale, Ghana 1987, vive e lavora tra Accra, Kumasi e Tamale) l’utilizzo di sacchi di juta di recupero, nella loro trasformazione da oggetto a installazione artistica su larga scala, è centrale nell’affrontare temi legati alla migrazione, alla globalizzazione, allo scambio economico, al lavoro, al post-colonialismo.

VINCITORE DEL PRINCE Claus Award 2020, Mahama che ha già esposto in contesti internazionali – tra cui due edizioni della Biennale di Venezia (nel 2019 nel padiglione inaugurale del Ghana e nel 2015 con la grande installazione site specific Out of Bounds), a Documenta 14, Atene e Kassel 2017, 6a Biennale di Lubumbashi 2019 e 22a Biennale di Sydney 2020 – è stato insignito del Premio Pino Pascali 2021 – XXIII edizione. La commissione presieduta da Rosalba Branà, direttrice della Fondazione Pino Pascali con Adrienne Drake, direttrice della Fondazione Giuliani per l’arte contemporanea di Roma e lo storico dell’arte Nicola Zito ha così motivato la scelta: «Artista con una forte connotazione politica, Mahama contamina i linguaggi dell’arte, dall’installazione ambientale site specific alla fotografia e all’assemblaggio oggettuale, con l’intento di condurre lo spettatore a riflettere su quelli che sono i fallimenti della modernità».

ALLA FONDAZIONE PINO Pascali di Polignano a Mare, dove è allestita la sua mostra personale (fino al 13 marzo), realizzata in collaborazione con APALAZZO Gallery di Brescia è di forte impatto la grande installazione Voli-ni, con il salone centrale dalle pareti completamente tappezzate di sacchi di juta. Caratterizzati dalle scritte del Ghana Cocoa Board (istituzione controllata dal governo ghanese che fissa il prezzo di acquisto del cacao in Ghana), ma anche dei caffè sudamericani, questi contenitori sono uniti tra loro, insieme a teli impregnati d’olio e sigilli metallici, mediante cuciture e rammendi e recano i segni dell’usura, così come i nomi dei vecchi proprietari tracciati con il pennello.

«SONO INTERESSATO A COME crisi e fallimento vengono assorbiti in questo materiale con un forte riferimento alla transazione globale e a come funzionano le strutture capitaliste», ha affermato l’artista. Filo conduttore delle altre opere esposte – il trittico Sunbun e Tinambany – è l’elemento iconico del pipistrello (anche lo spazio dell’Exchiesetta, nel centro storico del paese, ospita il site specific Lazarus con gigantesche ali di pipistrello, adattamento dell’installazione alla White Cube di Londra) che nei collage creati da Mahama assemblando gli ordini di produzione emessi negli anni ’70 dalla ditta Ghana Industrial Holding Corporation – Paint Division si ripete come un pattern: sembrano tanti gentiluomini d’altri tempi con indosso la mantellina senza maniche conosciuta proprio come «pipistrello».

METTENDO DA PARTE l’accezione collettiva negativa legata anche alla convinzione che questi mammiferi abbiano a che fare con il l covid-19, l’artista ne esalta la forte valenza simbolica legata alla loro capacità di resistenza e adattamento. Ibrahim Mahama, che è un instancabile promotore culturale, nella primavera scorsa ha inaugurato la terza istituzione educativa, il silo di epoca post-coloniale da lui acquistato a Tamale e ristrutturato. Il video Nkrumah Voli-ni. Memories from the Void (2020-21) documenta proprio il lavoro di riqualificazione operato dalle maestranze locali, ma anche la sua scelta di rispettare l’habitat dei pipistrelli che da decenni hanno trovato rifugio nell’ex deposito abbandonato.