Ma davvero la tutela della privacy è un intoppo burocratico come dicono alcuni suoi detrattori? Eppure è considerato un diritto fondamentale dall’Unione Europea. Però i cantori del liberismo che affollano Twitter e giornali padronali in forme diverse hanno criticato le cautele del Garante Privacy nella valutazione delle app di Stato che trasferiscono all’estero i dati sanitari perché rappresenterebbe una inutile complicazione per l’Italia che deve ripartire.

In realtà è vero il contrario, come dimostra uno studio australiano pubblicato dal British Medical Journal. Secondo lo studio, condotto su 20mila app per la gestione dei dati medico-sanitari, un quarto di essi viola la privacy degli utenti.

Su 15 mila app del solo Google Play Store gli autori dello studio hanno scoperto che l’88% delle app sanitarie poteva accedere, e potenzialmente condividere, dati personali degli utenti; circa due terzi potevano salvare i cookie; un terzo poteva vedere l’indirizzo e-mail; circa un quarto di esse poteva identificare il ripetitore a cui il cellulare era connesso, e di conseguenza geolocalizzarne l’utente con precisione.

Negli store digitali di Google e Apple ci sono circa 5 milioni di app di quel tipo e gli sviluppatori condividono regolarmente e legalmente i dati degli utenti, ma sono state ripetutamente riscontrate minacce alla privacy da parte dei loro software.

Ma non esiste una contrapposizione tra essere curati al meglio usando la tecnologia e il rispetto della privacy.
Se gestisco i dati correttamente sono più efficiente, non meno. Se le persone sanno che i dati sono protetti e al loro servizio – e non a quello di un subappaltatore sconosciuto -, possono essere più motivate sia a cederli per sviluppare politiche pubbliche efficaci e perfino a pagare per avere servizi più efficienti. Se in tanti hanno rifiutato le app di notifica alle esposizioni al Covid-19 è stato perché non erano sufficientemente sicuri di quello che con i dati generati ci si poteva fare.

Non bisogna sottovalutare l’importanza che i cittadini attribuiscono ai dati che li riguardano. Sanno che certi dati sono sensibili proprio per questo, perché dalla loro conoscenza si può sapere quanto di più profondo ci motiva e caratterizza. E i dati sanitari dicono moltissimo del nostro passato, presente e futuro. Pensiamo alle cartelle cliniche. Se cadono nelle mani sbagliate le informazioni che contengono possono motivare il rifiuto di un impiego, dell’assicurazione o di essere curati.
Non dovrebbe essere così, ma sappiamo che chi ad esempio ha sviluppato una malattia cronica verrà assicurato con difficoltà, e se hai una predisposizione genetica ad ammalarti, l’azienda dove hai fatto il colloquio potrebbe rifiutarti il lavoro.

I dati sulla salute sono particolarmente preziosi a livello sociale perché ci permettono di realizzare politiche pubbliche mirate, viceversa la conoscenza dello stato sanitario di una popolazione e delle sue vulnerabilità può diventare uno strumento di supremazia politico tecnologica.

Sappiamo che diversi attori statuali, aiutati da hacker criminali, hanno provato a impossessarsi dei dati relativi alla pandemia da Coronavirus perché sconfiggere il virus per primi era un elemento di contrattazione politica.
Il Garante ha ragione sull’adeguata protezione di quei dati. Ma non basta: la minimizzazione dei dati raccolti, il loro corretto trattamento, l’uso temporaneo, la distruzione degli stessi dopo l’utilizzo e il divieto di usarli per altri fini, sono alla base della fiducia dei cittadini che decidono di cederli per il bene di tutti. Ricordiamocelo.