Le suocere avevano previsto che non sarebbe stato un matrimonio facile, ma i clan avevano deciso che quel matrimonio di scopo s’aveva da fare e così Giggina e Matteo convolarono a nozze. Giggina veniva dal sud, era viziata, amava circondarsi di una corte adorante e disponeva di una consistente rendita frutto del patrimonio immobiliare costruito dal padre negli anni d’oro dei palazzinari. Matteo era figlio di un imprenditore del nord che si era fatto da solo vendendo sistemi di sicurezza e, grazie anche alle astuzie contabili di un commercialista ben introdotto, era diventato un boss. Com’era costume in tutte le famiglie che portavano in dote capitali e interessi, era stato stipulato un contratto pre matrimoniale che non lasciava nulla al caso.Giggina e Matteo andarono a vivere nella capitale, zona neutra, in una villetta di robusta metratura che concedeva a ciascuno i propri spazi vitali. Lei disponeva di un’ampia cabina armadio con guardarobiera, salottino privato per ricevere, sala fitness con sauna e postazione massaggi. Lui, che alla forma fisica era meno interessato, si era fatto installare nel seminterrato una sala giochi con poltrone reclinabili, lo schermo più grande del mondo da 370 pollici, angolo bar e biliardo.

AVEVANO anche deciso che ognuno di loro avrebbe avuto due sere libere a settimana, mentre i fine settimana li avrebbero trascorsi insieme per mostrare al mondo che l’unione era salda. Nel contratto venne regolamentata anche l’unione carnale. Lui non poteva chiedere più di un incontro settimanale, lei aveva facoltà di rifiutarlo se lui avesse ignorato i preliminari, in compenso non avrebbe assunto contraccettivi. Le famiglie speravano che un figlio avrebbe cementato l’unione.
La prima notte di nozze fu un antipasto del disastro. Giggina restò chiusa un’ora in bagno a prepararsi: creme profumate, biancheria tutta pizzi e trasparenze, vestaglia di seta. Quando entrò in camera, lui, che al pranzo di nozze aveva mangiato e bevuto come se non ci fosse un domani, si era addormentato sul letto con addosso gli stazzonati vestiti. Lei gli sbottonò la camicia, gli accarezzò la pancia villosa. Lui fece un rutto. Giggina sbuffò, girò il viso schifata, ma continuò con il suo dovere. Gli tolse le scarpe, i calzini, gli sbottonò i pantaloni, ma sfilarglieli fu un’impresa perché lui pesava come un tronco di pino. Cominciò ad accarezzarlo sul petto, scese verso il basso, indugiò attorno all’elastico delle mutande e intanto osservava se lì sotto c’era vita. Niente. Allora si fece audace, gli infilò una mano negli slip, massaggiò e solo allora lui reagì mormorando: «No, solletico no».
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A LEI «No, solletico no» non l’aveva mai detto nessuno. Come si permetteva quel mollusco russante di restare indifferente a una sirena come lei. Si richiuse in bagno e chiamò casa. «Mammà, Matteo sta na schifezza». «Che t’ha fatto figlia mia?». «Niente. Dorme». «Ecchessarà mai. Porta pazienza. Si sveglierà». «Voglio tornare a casa». «Non puoi. Abbiamo firmato. Il matrimonio deve durare almeno un anno». Giggina si sentì in trappola. L’avevano fregata. E pensare che aveva avuto così tanti spasimanti. Tornò in camera. Lui si era girato su un fianco e le dava la schiena. Pure quella era pelosa. Che schifo, pensò lei, neanche la ceretta si fa. Lui socchiuse un occhio, sbirciò l’orologio. L’una e venti. Per stasera l’aveva scampata. La prossima volta avrebbe escogitato qualcos’altro. In fondo doveva trovare solo 52 stratagemmi, uno a settimana. A quel punto si addormentò davvero, anche per non sentire lei che piagnucolava nel buio.

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