Qualche momento di tensione, ieri, a Roma, davanti all’ambasciata del Messico. Un gruppo di manifestanti – studenti, associazioni, centri sociali – ha deciso di accompagnare la Caravana 43 nel suo giro di denuncia per la scomparsa dei 43 studenti della scuola rurale Raul Isidro Burgos, sette mesi fa. “E’ stato lo stato”, dicevano gli striscioni improvvisati in via Spallanzani, riprendendo un tema agito nelle piazze di tutto il mondo. Un’evidenza, per come si sono svolti gli accadimenti.

Nella notte tra il 26 e il 27 settembre 2014, gli studenti delle combattive scuole rurali hanno subito l’aggressione congiunta di polizia locale e narcotrafficanti, mentre stavano raccogliendo fondi per una manifestazione in ricordo di un altro tragico episodio: il massacro di Tlatelolco, nel ’68. Diversi ragazzi sono caduti sotto il fuoco della polizia, altri sono stati rastrellati e portati via, e non sono più ricomparsi. Altri ancora, però, sono sopravvissuti e hanno ripreso il loro posto di denuncia e di lotta: per una scuola libera e gratuita, per un cambiamento di sostanza che dia voce finalmente a “quelli che stanno in basso”.

Nella società messicana non si distingue più dove finisce la criminalità e dove inizia il governo, coinvolto nella delinquenza a tutti e tre i suoi livelli. – ha detto al microfono Roman, dell’associazione per i diritti umani Tlachinollan – Sono stati stanziati oltre 7.000 milioni di pesos per combattere il narcotraffico, ma in realtà sono soprattutto serviti per mettere sotto controllo e perseguire le organizzazioni sociali”. I dati sono allarmanti: “23.000 persone scomparse, 150.000 omicidi in 10 anni”.

Cifre che evidenziano la natura di “uno stato complice e incapace, che risponde agli interessi privati del grande capitale multinazionale e non a quelli di chi abita i territori e produce”. Indirizzando il microfono alle finestre dell’ambasciata messicana, Roman ha detto che “la richiesta principale è la ricomparsa in vita dei 43”, ma che a questo si aggiunge l’esigenza di sicurezza per le lotte sociali, e la garanzia che, episodi come il massacro di Iguala “non avvengano mai più”.

La situazione dei diritti umani, in Messico, è drammatica e “peggiora ogni giorno di più”. Una recente legge, ha autorizzato la presenza e l’intervento di forze straniere nel paese. E il presidente Enrique Pena Nieto “ ha deliberatamente ignorato tutte le raccomandazioni emesse dagli organismi internazionali per i diritti umani”.

In Messico, la tortura come metodo di investigazione “è generalizzata”, le scomparse e l’impunità sono moneta corrente. E tuttavia, dice Roman “I diritti umani non si mendicano, si esercitano, si prendono”. E aggiunge “Ora che sapete, la responsabilità è anche vostra. L’avversario è lo stesso, le cause che portano all’esistenza dei cimiteri marini sono le stesse. Lottiamo uniti contro un’idra dalle sette teste che ha la sua testa principale qui, nell’Unione europea”.

Toccante, il racconto del padre di uno degli scomparsi, Mauricio Ortega: “Sono un contadino – ha detto – io e mia moglie abbiamo fatto tanti sacrifici per mandare mio figlio a studiare, perché la cultura è importante per capire. Il governo ci ha ingannato, ci ha consegnato le ossa di altri cadaveri. E sarebbe il caso di chiedersi: chi ha ucciso quelle persone che non erano i nostri figli? Noi abbiamo chiamato una commissione di esperti dall’Argentina. Ci hanno confermato l’inganno. I nostri figli non sono stati uccisi, ma sequestrati. E noi li rivogliamo vivi, com’erano quando ce li hanno portati via. Se fosse successo a un ricco, avrebbero già rivoltato il paese per trovare i colpevoli”.

Precisa e diretta anche l’analisi di Omar Garcia, uno dei 50 sopravvissuti alla mattanza: “Siamo bersagli viventi – ha detto – camminiamo con il mirino del fucile puntato sul petto. Abbiamo tentato tutte le strade della comunicazione, abbiamo provato tutte le forme di lotta, ma il governo ha sempre opposto un muro. Ci ha detto di aspettare e di aver fiducia nell’inchiesta, ma non ha prodotto niente. Diverse volte abbiamo incontrato il presidente Pena Nieto, ma ci ha sempre deluso. Avremmo potuto ucciderlo, ma non sarebbe cambiato niente: sappiamo che quel che accade in Messico non è responsabilità di un uomo solo, ma di un insieme di cause, di interessi e di relazioni che portano certi gruppi di potere a prosperare. E c’è anche un altro grande nemico: l’indifferenza. Dopo quel che è successo, molta gente si è svegliata e adesso non vuole più tornare indietro. Prima eravamo in ginocchio, ora ci siamo alzati in piedi. Abbiamo guadagnato il loro odio ma, come ha detto Fidel Castro, adesso ci devono rispettare”.

I manifestanti applaudono, l’emozione cresce. C’è una ragazza incinta, un’altra con il passeggino, ci sono diversi migranti. Interviene un ragazzo venezuelano, declina il senso dell’internazionalismo. Sulle magliette spicca la scritta “Siamo tutti Ayotzinapa”. Tutti reggono le foto degli comparsi, i loro nomi.

Adesso si cerca di appiccicare le foto sui cancelli dell’ambasciata. La polizia interviene. Arrivano altri pullman e altri agenti: “In Messico come in Italia, stanno sempre dalla stessa parte”, gridano i manifestanti. Dalle finestre dell’ambasciata, vi sono diverse persone affacciate. Qualcuno scatta foto e prende nota. I manifestanti si muovono, contenuti da due cordoni di polizia. Si va alla Sapienza, per un pranzo e una discussione. E poi a far festa a Acrobax. Per cantare ancora: “Ayotzinapa somos todos”