Amplificare i confini della visione, all’interno di un ambiente ipnotico e straniante, sembra essere ormai una costante del lavoro di ZAPRUDER filmmakersgroup, collettivo composto da David Zamagni, Nadia Ranocchi e Monaldo Moretti, che, fin dall’inizio, si è insinuato nella zona interstiziale tra arti visive e cinematografiche, nelle immagini in movimento e negli audiovisivi che originano da una continua messa in discussione del linguaggio e del mezzo tecnico, dando luogo a ciò che il gruppo definisce come una sorta di Cinema da Camera, un cinema incarnato e tattile.

Dal 2005 Zapruder filmmakersgroup esplora ed applica anche i principi delle tecniche stereoscopiche per la produzione di film ed installazioni, progettando e costruendo sia i dispositivi di ripresa stereoscopica sia quelli di visione, opere presentate e premiate in luoghi come il Centre Pompidou di Parigi, la Biennale di Venezia e, recentemente, il Milano Film Festival. L’ultima videoinstallazione Fault, fino al 31 ottobre a Milano presso la Artopia Gallery di Rita Urso, è appositamente concepita per lo spazio, diviso in due piani, della galleria e sembra quasi sottolineare, con il rispecchiamento e la duplicazione dei punti di vista, la scissione fra piano terra e primo piano. In questo luogo «parziale», a metà, forzato all’immaginazione, Fault chiede esplicitamente il completamento della visione da parte dello spettatore.

La prima parte della mostra infatti è composta da sei polittici fotografici, fotogrammi di un video-lavoro del 2009 dal titolo Slaughterhouse, dove il punto di vista di tre scene del video (una donna nuda e una mela, un corridoio attraversato da un bimbo e un quadretto familiare natalizio è scomposto, tagliato a metà, reciso come l’occhio di Un chien andalou di Bunuel. Nelle prime tre serie di fotogrammi vediamo l’azione soltanto dalla metà in su, nella seconda serie l’opposto, verso il basso mentre il visibile, imbevuto di colori lynchiani e prospettive che rimandano al flashback iniziale di Profondo rosso di Dario Argento, è affidato alla singola percezione, alla fantasia, al mutamento, alla sorpresa di un’immagine frammentata che svela il mistero della messa in quadro.

Al piano superiore invece, una fila di occhialini anaglifici introduce uno schermo diviso in due che si compone di quattro diverse scene, trattate in modo da acquisire il carattere di bassorilievi: un ragazzo che cade dalle scale di un palazzo, una giovane donna intenta a smagliarsi le calze di nylon, un gruppo di uccellini che si posa sull’asta di un microfono e furgoni che vanno e vengono da una cava di marmo. Anche qui il punto di vista è spezzato dai confini dello schermo, da un lato la prospettiva dal basso, dietro quella dall’alto mentre il suono, realizzato con la collaborazione sonora di Francesco Brasini, unifica le due diverse angolazioni, lasciandoci ancora una volta quella sfumatura di mistero e un senso di gioiosa sconfitta sullo statuto inafferrabile dell’immagine.