A quindici giorni dalle elezioni europee fanno capolino improvvisamente valutazioni più rosee sullo stato dell’ economia del nostro continente. L’ipotesi più semplice, neppure troppo maliziosa, è che si voglia artatamente spargere ottimismo sulle possibilità di uscita dalla crisi , proprio per contenere gli effetti di un diffuso euroscetticismo.
Il caso più citato è quello del Portogallo. Lo si è visto anche in una recente puntata del programma Ballarò. Il prossimo 17 maggio il paese lusitano uscirà dal “programma di assistenza”, approntato dalla Troika tre anni fa, che ha portato nelle casse esauste di Lisbona 78 miliardi di euro. Il fatto che ora il Portogallo possa tornare a rifinanziarsi sul mercato internazionale e che i tassi di interesse sui decennali siano scesi dal 10,6% del 2011 al 3,6% attuale, viene presentato come un successo delle politiche di austerity.

Il rigore quindi ha vinto? Niente affatto, se si leggono i dati della economia reale del Portogallo: il tasso di disoccupazione ha toccato nel 2013 il 16,3%, quello giovanile è superiore al 40%, il tasso di occupazione è tornato ai livelli degli anni Ottanta; 827mila persone sono in stato di disoccupazione, tra queste più di mezzo milione lo sono da più di 12 mesi, l’asticella che le qualifica come disoccupati di lunga durata. Il settore delle costruzioni è in piena crisi occupazionale. L’emigrazione ha ripreso a svuotare il paese. Praticamente ogni giorno 350 portoghesi cercano fortuna oltreconfine. Intanto l’indebitamento del settore privato è enormemente cresciuto, le tasse sono aumentate, l’Iva è passata dal 13 al 23%, i servizi pubblici arrancano, le pensioni sono state ridotte. L’ultimo assegno di 2,6 miliardi di euro che completa il piano di “aiuti” costerà nuove sofferenze in termini di incremento dell’Iva e di tassazioni dirette sul lavoro. Circa un milione di persone ha attraversato le strade di Lisbona per protestare contro il deserto lasciato dall’aiuto della troika. Ma tutto questo viene oscurato per esaltare le virtù delle politiche di rigore.

Se le aste dei titoli di stato dei paesi in difficoltà cominciano ad andare meglio e i tassi scendono non è dovuto ad una ripresa della economia reale, ma semplicemente alla nuova direzione geofinanziaria che hanno assunto i capitali. L’effetto congiunto del tapering della Federal Reserve statunitense e le crescenti difficoltà dei Brics, risospingono i capitali nella vecchia Europa, verso rendimenti “normali”, cioè più contenuti ma meno rischiosi.
In Italia si suonano addirittura le trombe perché Fitch, dopo Moody’s, ha confermato il rating BBB+, ma con un outlook stabile. Si aspetta ora cosa dirà la terza sorella, Standard&Poor’s, ma il suo responso sul rating del nostro paese avverrà solo il 6 giugno, dopo la prova elettorale. Ma che l’uscita dalla crisi per il nostro paese sia un puro miraggio ce lo confermano le stime dell’Ocse.

Non si capisce come il ministro dell’economia Padoan possa trovare molto incoraggiante l’analisi dell’organizzazione parigina, dal momento che questa taglia le stime di crescita rispetto a quelle del nostro governo e della stessa commissione europea. L’Italia, al pari della Grecia o giù di lì, si colloca al fondo della classifica dei paesi dell’Eurozona. Le stime della disoccupazione vengono modificate in negativo: il prossimo anno si toccherà il 12,5% invece del 12,1% come precedentemente previsto. Se ci sarà maggiore domanda di manodopera – ci dice l’Ocse – questa verrà interamente assorbita da un aumento di ore lavorate da chi il lavoro lo ha già, senza nessun incremento occupazionale. E, grazie al decreto Poletti incredibilmente peggiorato dal Senato, la precarietà diventerà la condizione assolutamente prevalente, come ha osservato anche Tito Boeri. Mentre l’Istat già calcola che l’impatto sulla ripresa dei consumi degli 80 euro (in realtà 53 in media) promessi da Renzi sarà minimo.

Anche se Mario Draghi dovesse decidere, come da più parti si chiede, visto che l’inflazione è scesa allo 0,7%, di portare i tassi a zero (dallo 0,25% attuale) e di introdurre tassi negativi per le banche che posteggiano i loro capitali presso la Bce, anziché farli circolare in prestiti a famiglie e imprese, questo non sarà di per sé sufficiente a risollevare il nostro continente dalla depressione.

Ci vuole una svolta radicale. Bisogna che l’Europa sia salvata dalle sue distruttive politiche. Che i trattati e la mission della Bce vengano profondamente modificati ponendo il tema della piena occupazione e della riduzione dell’orario di lavoro come obiettivi prioritari, sostenendoli con un piano finanziato con almeno 100 miliardi di euro all’anno per 10 anni a carico del bilancio europeo e con il reddito minimo garantito per i giovani, Visto ciò che si è messo a disposizione delle banche in questa crisi (oltre 4mila miliardi), non si tratta di cifre proibitive. Anche se le recentissime decisioni di Ecofin di svuotare la Tobin tax non vanno certo in questa direzione.

Per il debito non c’è altra strada che la sua riduzione/ristrutturazione e mutualizzazione. Quindi il fiscal compact va abolito, altrimenti strangolerà qualunque tipo di crescita. Come ha detto Amartya Sen – non solo Tsipras – in un recente convegno romano: «Bisogna uscire da misure anti-debito che equivalgono a misure anti-crescita. I debiti sovrani europei erano molto peggiori dopo la seconda guerra mondiale, ma grazie alla crescita economica i paesi sono riusciti a ripagarli». Non interamente, come sappiamo dal caso tedesco.

Tanto più è vero oggi, poiché non si tratta di ritornare alla vecchia crescita, ma a un modello di produzione e di consumi qualitativamente innovativo, per cui è decisivo l’intervento pubblico diretto in economia. Non si esce dalla crisi e dal capitalismo in crisi, solo modificando la distribuzione dell’esistente, ma ponendosi concretamente il problema di cosa, per chi e come produrre.

P.S. Di tutto questo parleremo martedì 13 gennaio dalle 16.30 alla casa Internazionale delle Donne a Roma in un incontro con economisti e giuristi per esporre il programma de “L’altra Europa con Tsipras”