IL LIBRO PRESENTA un’utile raccolta di indagini volte a smascherare i meccanismi di intensificazione del comando capitalistico e il conflitto che incontra, a evidenziare la connessione delle esperienze di vita e lavoro con le diverse condizioni politiche e legislative e a mettere a nudo le contraddizioni tra retorica e realtà dei nuovi regimi di produzione.
Un posto di rilievo è dedicato al lavoro migrante, che rende visibili le trasformazioni in atto nella produzione e riproduzione sociale in virtù non solo della sua natura oggettiva – mobile, precaria, legata alle sue condizioni politiche – ma anche delle sue potenzialità soggettive.
A PARTIRE DAL LAVORO migrante si può cogliere la connessione delle figure del lavoro sia all’interno di reti di produzione globali sia nei percorsi di lotta attraverso i confini. Grazie a questo doppio livello, le categorie scientifiche utilizzate e le ipotesi politiche avanzate vengono messe alla prova della loro capacità di cogliere la materialità dei rapporti e dei conflitti sociali.
Così, ad esempio, nella riflessione sul lavoro digitale fatta da Elinor Wahal, la «dipendenza da lavoro» che le discipline sociologiche rintracciano nel caso dei crowd-workers – che passano davanti al pc anche 17 ore al giorno – esemplifica l’insufficienza di categorie che leggano i nuovi regimi di produzione secondo una prospettiva individualizzante e una concezione unitaria del tempo di lavoro – che non tiene conto, cioè, del prolungamento e spezzettamento della giornata lavorativa –, e non invece a partire dal ricatto e dall’insubordinazione nel regime del salario. Inseguire pezzi sconnessi di salario compiendo microtask a ripetizione, più che il sintomo di una dipendenza patologica connaturata al lavoro digitale, sembra essere la maledizione che agisce su un intero mondo in cui la precarietà è condizione normale e istituzionalizzata.
Alla luce di questa tensione tra categorie sociologiche ed etnografiche e la realtà del lavoro contemporaneo si comprende l’affermazione della necessità di osservare da vicino gli ingranaggi e i protagonisti della storia del capitalismo, abbandonando l’illusione che vi sia uno sviluppo logico e progressivo da rintracciare nel susseguirsi delle trasformazioni produttive.
SENZA CEDERE allo «scintillio delle nuove tecnologie» (Sacchetto), il libro discute la novità della fase attuale a partire dalla riflessione sulle continuità e discontinuità, dalla lettura complessiva del lavoro e dell’ambiente politico in cui si inserisce. È in questo quadro che va collocata l’alternanza di casualizzazione e decasualizzazione nei porti (Andrea Bottalico), oppure il deskilling nelle fabbriche della Electrolux (Fiorella Longobardi).
Infine, non è un caso che, scorrendo i saggi, il sindacato emerga nella realtà della crisi a cui si è da lungo tempo condannato. Dalle pagine del libro traspare l’insufficienza di un approccio vertenziale e di una strategia che ruoti esclusivamente intorno al sindacato, strumento di mediazione inadatto alla composizione di classe attuale – frantumata e rarefatta. Anche nella storia dei sindacati delle sex workers in Italia e Germania, ricostruita da Mareen Heying, a imporsi all’attenzione non sono i successi delle strategie sindacali ma le soggettività in lotta contro un quadro normativo e istituzionale che non ha mai smesso di provare a restringere lo spazio di azione delle lavoratrici in questione. Di fronte alla natura mobile e informale del lavoro, le domande aperte e le sfide che sorgono dalle esperienze di precarietà e conflitto raccontate nel libro forniscono un punto di partenza prezioso per comprendere e trasformare lo stato di cose presente.
La versione integrale di questa recensione è pubblicata su connessioniprecarie.org