Migliaia di persone, inquilini, sfrattati e senza casa nelle strade di Barcellona sabato pomeriggio, organizzati dalla PAH e dal nuovo «Sindacato degli affittuari», per ribadire che «la città non si vende»; la riapertura dello scontro istituzionale sul referendum, autoconvocato per ottobre, per l’indipendenza della Catalogna; la vigilia della discussione della mozione di sfiducia al governo Rajoy, costruita «dal basso» da Unidos Podemos nel parlamento di Madrid: è stata questa la vivace cornice sociale e politica esterna, in cui si è inserito lo scorso fine settimana a Barcellona il meeting Fearless Cities. Uno straordinario successo di partecipazione, con oltre settecento ospiti internazionali provenienti da quaranta differenti Paesi e più di centottanta «città senza paura», ha riempito tre intensi giorni d’incontri pubblici, workshop, riunioni informali, che hanno iniziato a tessere una più fitta trama di relazioni.

DA SOTTOLINEARE il fatto che l’appuntamento lanciato da Barcelona en Comú abbia avuto un respiro effettivamente globale: corposa la presenza di attivisti e amministratori in arrivo dalle città statunitensi, oggi in prima linea nella lotta alla presidenza Trump su diversi terreni, dalla discriminazione razziale alle energie fossili, ma altrettanto significative le esperienze sudamericane (Valparaiso, Rosario, Belo Horizonte) o , dagli altri continenti, quelle di esponenti della Umbrella revolution di Hong Kong, approdati nel consiglio comunale dell’ex colonia, o della delegazione curda che ha riproposto, tra le ovazioni, il modello del «confederalismo democratico» come efficace risposta, a partire dalle regioni autonome della Siria del Nord, alla crisi degli Stati nazione che degenera in più aggressivi nazionalismi e integralismi.

IL CARATTERE GLOBALE della nuova ondata municipalista è stato poi evidenziato dalle parole di Debbie Bookchin e Vandana Shiva, come formula innovativa in grado di resistere alla fase «post-crisi» della globalizzazione neoliberale, e al suo articolarsi proprio a partire dall’uso estrattivo delle eterogeneità sociali e territoriali.
Certo si sono viste, qui per la prima volta, tutte le potenzialità di uno spazio d’espressione politica del discorso municipalista. La variegata composizione del meeting e il produttivo confronto tra esperienze differenti che si propongono ciascuna come laboratorio, a partire dalle proprie irriducibili specificità locali, ha fatto parlare qualcuno di una «santa trinità municipalista» indispensabile a nutrire, con ruoli e in proporzioni diverse da città a città, reali processi di cambiamento, attraverso la necessaria compresenza di movimenti sociali, piattaforme politico-elettorali «di cittadinanza», e governi municipali.

SONO LE ESPERIENZE più avanzate, come quella di Barcellona, là dove questi tre elementi si danno nella forma più matura, ad essere per prime consapevoli del fatto che la semplice «riappropriazione delle istituzioni locali non significa automaticamente la presa del potere». E che questo è possibile solo se si apre e si mantiene viva una permanente dialettica tra dinamiche sociali, al tempo stesso conflittuali e propositive, e funzioni di governo, che delle prime siano creativamente ricettive. In modo che la spinta «dal basso» delle nuove istituzioni del comune si combini con la trasformazione delle stesse «istituzioni costituite».

PROCESSI di questa portata sono destinati a scontrarsi con i limiti, interni ed esterni, dell’azione di governo locale, anche di quella più radicale e innovativa possibile. È a quest’altezza che si pone la questione del potere: della fitta trama dei rapporti di forza reali, economici e sociali, mediatici e politici, che innervano la vita delle metropoli. E delle costrizioni giuridiche e istituzionali, finanziarie ed economiche che, dall’esterno, condizionano ogni scelta di governo cittadino. Dal livello nazionale a quello globale, passando per i vincoli posti dal ruolo esecutivo giocato dagli Stati nella cornice della governance europea.

La sfida di processo sta, a questo punto, nella capacità di forzare tali limiti, costruendo, oltre e contro ogni tentazione localistica e autoreferenziale, reti di città che siano in grado di intrattenere produttive relazioni su molteplici livelli: sia con lotte e movimenti sociali reali, sia con altri governi municipali, sia con forze politiche votate al cambiamento, negli spazi nazionali e, ancor più, su una scala d’azione transnazionale. A partire da quella dimensione europea ed euro-mediterranea oggi imprescindibile.

LA CESSIONE DI SOVRANITÀ verso il basso, nei contesti urbani, è perciò premessa necessaria per riconquistare spazi di agibilità democratica verso l’alto. Insieme al protagonismo delle donne che pone al centro del municipalismo un decisivo sguardo di genere. Capace d’intrecciare progetti concreti in ogni quartiere con l’esercizio di forme nuove di «disobbedienza amministrativa», per affermare diritti sociali e civili oggi negati. E con la disponibilità a stringere – lo ha ribadito con forza l’Alcaldessa Ada Colau nell’assemblea di chiusura – «alleanze anche con chi non la pensa come noi, ma condivide le stesse battaglie e gli stessi obiettivi», sul cambiamento climatico e sulle migrazioni, sulle politiche abitative e per un nuovo welfare.

Su questi nodi cruciali per l’alternativa l’agenda dei «municipalisti di tutto il mondo» è già fitta di appuntamenti: dalla mobilitazione contro il G20 ad Amburgo a luglio al Transeuropa Festival di Madrid ad ottobre, fino al prossimo meeting globale proposto a Valparaiso.