No, il cinquantenario del Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini non piace a Enrique Irazoqui, l’immagine più forte del Nazareno che il cinema abbia mai prodotto. Non piace, quello organizzato in alcuni posti non solo in Italia (sarà però al prossimo festival del cinema di Lecce) per almeno due motivi. Uno, è quello della riappropriazione spesso da parte della chiesa cattolica di quel film. Il catalano Enrique rifiutò anni fa un invito dal vescovo di Novara per una manifestazione in cattedrale. «Risposi e rispondo adesso a chi sta sulla stessa linea che uno degli episodi che ricordo di più nel Vangelo è quello della cacciata dei mercanti dal tempio» mi dice al telefono, ricordando in proposito ciò che gli accadde una volta in Catalogna.

Trovandosi di fronte a un cineclub dove proiettavano Il Vangelo, chiese chi noleggiasse la pellicola e la risposta fu scioccante per un laico come Irazoqui: «È soprattutto l’Opus Dei». «Ma capisci – continua – la chiesa che prende in mano la cosa rende tutto superficiale, cioè lirico, mentre invece quel film era soprattutto epico. Non era questo che volevamo». Il secondo motivo è la santificazione di Pasolini. «Vedi, davvero non ne posso più. È da molto tempo che continua questa manipolazione su Pier Paolo. Pasolini era invece, e per fortuna, l’esatto opposto di un santo. Era un poeta e una persona straordinaria, non il personaggio che viene fuori in tutti questi anni». Enrique ama molto il nostro paese, e non solo per la madre italiana o per i trascorsi di gioventù quando vestì, da cospiratore antifranchista, i panni del Nazareno.

Rimpiange i rapporti umani con Pier Paolo, Elsa Morante, i tanti attori di quel film con cui continua a mantenere un contatto. Ma un’altra cosa non riesce a tollerare: «Sopportare questo fascismo strisciante che c’è ovunque, è dura per me, ti assicuro» conclude. Naturalmente va orgoglioso del Vangelo secondo Matteo, anche se nella filmografia pasoliniana preferisce Accattone. Per Pasolini conserva un’ammirazione immensa, anche se piena di spirito critico. Era tornato per la prima volta ai Sassi di Matera nel 2011 per una rievocazione del film, lo intervistammo già in quell’occasione. Enrique Irazoqui è figlio della buona borghesia catalana, il padre psichiatra, la madre, una piccola industriale, di origini italiane, di Salò («tutto torna» è il suo commento).

Nasce nel luglio 1944, nel febbraio 1964, a 19 anni è mandato in Italia anche per la sua conoscenza della lingua come giovane dirigente del partito comunista spagnolo, a cui si è iscritto già a diciassette anni, per invitare gli intellettuali italiani a venire per delle conferenze nella Spagna franchista. Dopo l’esperienza pasoliniana, che gli costerà, al rientro in patria, il ritiro del passaporto (il film venne accusato di «propaganda comunista»), un’espulsione dall’università e l’aumento di 12 mesi in più di servizio militare, Irazoqui, dopo aver ancora preso parte a due film dell’avanguardia catalana (Noche de vino tinto e Dante no es unicamente severo), studia economia e insegna letteratura spagnola in America, quindi abbraccia e sviluppa una sua antica passione per gli scacchi (la stessa che lo porterà in gioventù a giocare a Parigi con Marcel Duchamp), stavolta sul web divenendo anche un esperto di fama.
Iniziò quindi l’avventura italiana
Sì, certo. L’ultima cosa che avrei pensato era il ruolo dell’attore in un film simile, anzi in qualsiasi altro film. Partii per l’Italia nel febbraio 1964. L’idea era quella di incontrare personalità della cultura e dell’arte per portarle in Spagna a conferire. Una scelta tattica: erano tutti nomi di fama e il regime avrebbe trovato difficoltà ad arrestarli perché si poteva scatenare uno scandalo in tutto il mondo. Giunsi a Firenze dove incontrai Giorgio La Pira, e poi a Roma. Con l’amico Giorgio Manacorda, che faceva da contatto, incontrai tanti artisti e politici, a partire da Pietro Nenni, che era un grande mito per noi avendo lottato nella guerra civile spagnola, e poi i fratelli Pajetta, a partire da Giuliano che lavorava agli esteri del Pci. Fu lui a mettermi alla prova con una vera e propria trappola a cui seppi sfuggire. Dovevo andare a Parigi per incontrare alcuni compagni spagnoli, e lui mi disse: chi sono, a me puoi dirlo. Gli risposi: non ci penso nemmeno. A quel punto si è aperta una tenda ed è venuto fuori Manolo Ascarate che apparteneva al comitato esecutivo del partito comunista spagnolo. Era contento del mio comportamento e mi disse dove andare precisamente a Parigi per incontrare i compagni fuoriusciti spagnoli. Credimi, sembrava davvero di essere in una storia di John Le Carré o in un film di James Bond.
Come avvvenne l’incontro con Pasolini?
Il penultimo giorno di residenza a Roma, Giorgio Manacorda mi disse: ti porto aconoscere un poeta, si chiama Pier Paolo Pasolini. Io non lo avevo mai sentito nominare nonostante avesse già al suo attivo romanzi,poesie e film. Giorgio mi raccontò anche della sua omosessualità. Che mi ritornò in mente quando Pasolini mi squadrava e girava intorno al divano dove ero seduto. Già prima, appena aperta la porta, Pasolini aveva gridato rivolto a me: è lui! E naturalmente io non avevo capito niente. Figuriamoci dopo, quando mi osservava minuziosamente! Comunque io ho esposto le ragioni della visita e l’invito a venire in Spagna per delle conferenze. A quel punto lui mi ha detto: vengo in Spagna, ma voglio chiederti un favore. Mi disse che da due anni cercava l’interprete principale del film sul Vangelo di Matteo. Gli ultimi nomi che aveva in mente, Evgenj Evtushenko e Juan Goytisolo, non lo convincevano. Invece era rimasto folgorato da me. Dovevo essere io il Nazareno. In seguito mi dirà che gli ricordavo i cristi preraffaelliti e le pitture di El Greco, oltre al fascino della mia storia di cospiratore antifranchista. Gli risposi decisamente: no, non se ne parla nemmeno. Io devo costruire la Fratellanza Universale e tu vuoi che giri un film. Assolutamente no, gli ribadii alla sua nuova richie sta. Non mi interessava, anche per ché pensavo alla chiesa che aveva benedetto Franco. Lui cominciò a parlarmi di Gramsci, della cultura nazional-popolare, mi raccontò che pensava a un Cristo diverso. Ma a me non interessava lo stesso. E allora lui ha investito i suoi amici. È venuta Elsa Morante (la prima cosa che pensai fu: come è strana questa donna!), poi Alfredo Bini, il produttore del film. Bini mi promise dei soldi, ma io ancora rifiutai. Fu Giorgio Manacordaa tirare le conclusioni e a guardare l’aspetto pratico. Mi disse: anche la nostra causa può guadagnarci. E allora accettai.
Come è stato il rapporto con Pasolini e cosa hai pensato allora e in seguito di lui come autore e come uomo?
Pier Paolo era di una straordinaria onestà e sincerità. È stato uno degli intellettuali più grandi degli ultimi 80 anni. Era vulcanico. Faceva film, scriveva, dibatteva, un’intensità incredibile. Aveva anche qualche orgoglio dovuto alla sua competitività: per esempio non voleva giocare con me a scacchi perché sapeva di perdere. Amo tantissimo la sua opera complessiva, anche se considero Pasolini innanzitutto un grande poeta. Poesia in forma di rosa (e non perché l’ultima poesia è un omaggio a me) e Le ceneri di Gramsci. Quando ho saputo della sua morte terribile, uno shock, un orrore assoluto. Ho provato più o meno la stessa cosa quando è morta Elsa Morante 10 anni dopo
Conservi qualche rimpianto del rapporto con lui?
Ah, sì. Quando mi propose di fare, subito dopo il Vangelo, Padre selvaggio in Kenia aggiungendo che lo avrebbe girato con me oppure non lo avrebbe fatto, e io rifiutai. Oggi, se Pier Paolo fosse vivo e mi facesse la stessa proposta correrei in Kenia.
Pasolini poi venne in Spagna per la conferenza?
Un mese dopo la presentazione del film al festival di Venezia, Pasolini venne a Barcellona, e non fu arrestato. Anche se ci furono vietate molte aule dell’università riuscendo poi a farla alla facoltà di medicina. Fu una conferenza bellissima, dove affrontò un po’ tutti i problemi del momento: dal fascismo al marxismo, dalle lotte dei partiti comunisti alle questioni della cultura e dell’arte.
Come fu l’esperienza delle riprese del film?
Fu tutto molto facile, tranne i primi tre giorni. Era la grandezza di Pasolini rendere tutto così scorrevole. Tanto per fare un esempio, lui aveva un metodo politico pedagogico: quando ti scagli contro i farisei, mi diceva, pensa alla borghesia franchista, e alla chiesa complice. E, naturalmente, per me, che avevo tra l’altro studiato dai gesuiti, era una soddisfazione anche politica. E così via. Insomma Pasolini ti metteva a tuo agio.