«Le polemiche possono far male a Silvia Romano e alla famiglia, intossicare un clima di felicità pura. Che va assolutamente preservata. Non devono curarsi delle critiche ma proteggere il rapporto speciale a distanza che hanno creato in questo tempo di preparazione. La comunicazione, anche se non verbale, c’è stata sempre e non deve entrarci nessuno. Questo è il momento di riappropriarsi di se stessa».

Susan Dabbous è giornalista freelance. Italo-siriana, segue da anni le questioni mediorientali. Il 3 aprile 2013 fu rapita dal Fronte al-Nusra, filiale qaedista in Siria, con i colleghi della Rai Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe e Andrea Vignali. Di quegli undici giorni in mano ai rapitori, in un appartamento con la sua carceriera Miriam, ha scritto nel libro Come vuoi morire? edito da Castelvecchi.

Miriam era addetta alla tua educazione religiosa. Dal ritorno di Silvia l’attenzione si è concentrata sulla conversione all’Islam, dagli offensivi titoli di alcuni giornali alla morbosa analisi dei dettagli del suo corpo da parte dei media. Da cosa è dettato un interesse che a volte sfocia nella criminalizzazione della vittima?

Il tema della conversione è molto controverso nella storia delle religioni, dai crociati alla blasfemia islamica punita con la pena di morte. Le religioni si stratificano su una contesa di numeri. La parola stessa, “convertito”, ha un’implicazione lessicale molto negativa, qualcuno che va corretto o raddrizzato mentre la conversione va intesa come momento di incontro e cambiamento, in senso positivo. È atavico parlare di conversione in termini negativi quando in realtà è un cammino spirituale. Nel caso di Silvia io non tratterei nemmeno il tema: una persona in stato di coercizione per tanto tempo ha fatto delle scelte dettate da cose che non sappiamo e di cui non abbiamo diritto di parlare. Possiamo solo dire che non è un comportamento inusuale, le conversioni degli ostaggi sono molto comuni.

In un tuo post su Facebook hai parlato del significato che ha un vestito nel radicare una sensazione di sicurezza nella vittima e l’importanza del corpo nella difesa della mente.

Partiamo dal presupposto che chiedere di cambiare d’abito a una persona che ha vissuto in quelle condizioni per tanto tempo è come chiedere a qualcuno di uscire nudo. L’abito è il modo in cui ti guadagni il rispetto di persone che hanno una cultura diversa, l’abito ti protegge e ti permette di scomparire. È come un bambino che chiude gli occhi come meccanismo di difesa. L’abito più ti copre e più ti contiene. Quando sei ostaggio non pensi costantemente alla tua morte, pensi a come sopravvivere e a guadagnarti il rispetto di chi ti tiene in vita. È un comportamento remissivo, ma che in quegli abiti ci si trovi bene non stupisce affatto. Serve tempo a normalizzare. Salire su un aereo non è salire su una macchina del tempo, tornare a una realtà precedente come se la prigionia non fosse avvenuta. Ciò che ci accade è il nostro bagaglio, va elaborato, accettato, può essere traumatico. Non è uno schiocco di dita o il volo di ritorno da una vacanza.

Negli ultimi dodici mesi sono stati liberati altri italiani, Sergio Zanotti e Alessandro Sandrini entrambi rapiti in Turchia e Luca Tacchetto in Burkina Faso. Quanto incide nella narrazione del rapimento di Silvia e del riscatto il fatto che sia una donna?

Incide tantissimo. Penso che nel mio caso si sia evitato il linciaggio mediatico perché sono stata rapita con degli uomini, meno presenti sui media perché su di loro si era annidata meno curiosità. Io sono donna, mezza siriana, musulmana, un elemento ibrido. E poi c’era la curiosità su come sono stata trattata da un’altra donna. Ho avuto accesso alla vita di una jihadista, che da giornalista ho trovato estremamente interessante, seppur vivessi in una condizione psicologica di inferiorità. Quando vengono rapiti tecnici, ingegneri, la questione della negoziazione non è messa in discussione, segue un cliché istituzionale. Per lo Stato italiano gli ostaggi sono tutti uguali e ne dobbiamo andare fieri. Gli infiniti dibattiti se sia giusto o meno pagare è futile: sugli occidentali viene operata una generalizzazione, quando ti rapiscono non guardano al passaporto. L’accanimento mediatico verso giovani, donne, dotate di intelletto e coraggio, è dato da misoginia e atroce invidia. Sarebbe utile un’analisi su chi compie le critiche e non sul loro oggetto.

I rapimenti sono una fonte di finanziamento dei gruppi jihadisti. Quanto pesa un simile business sulle loro entrate?

Molti sono rapimenti a scopo politico o dimostrativo, mostrare di avere un’arma di ricatto. Per questo durano così tanto: se fossero solo a scopo estorsivo, ci si accorderebbe subito e l’ostaggio sarebbe rilasciato presto. I rapimenti molto lunghi hanno una componente ideologica. Ma va detto che i gruppi terroristici esistono perché hanno finanziamenti ingenti di soggetti che ottengono vantaggio politico dal caos. Che i rapimenti siano il principale business non è vero.