Se c’è uno scrittore che più di tutti è responsabile della trita immagine scolastica di un medioevo «oscuro», questo è forse Gregorio di Tours, un aristocratico galloromano, divenuto vescovo di Tours nel 573, le cui tenebrose Historiae Francorum, esempio di storiografia etnica accesa da chiaroscuri drammatici e da violente coloriture, furono rielaborate in epoca romantica da storici-vati del popolo Franco come Thierry e Michelet e da pittori e incisori della storia nazionale francese come Alphonse de Neuville e Henriette de Witt.
Si trasmise così dell’età merovingia, la Francia dei secoli VI-VIII, un quadro fosco di feroci lotte dinastiche, tradimenti senza scrupoli e assassini di consanguinei in difesa di labili strategie militari e possedimenti territoriali quanto mai instabili, perché continuamente messi in discussione dalle divisioni ereditarie e dai conferimenti matrimoniali più o meno forzati: strumenti di gestione del potere considerati ordinaria amministrazione nell’impero romano, questi metodi brutali di eliminazione della concorrenza suscitano invece raccapriccio nella narrativa di un uomo di Chiesa che con la famiglia reale in guerra civile permanente ha rapporti altalenanti, anche per via dei conflitti patrimoniali, e non può condividerne i sistemi così spicci e amorali di gestione e ricambio.
Come ha scritto il suo maggior esegeta italiano, il medievista Massimo Oldoni, che ne ha curato due volte l’edizione (Fondazione Valla – Mondadori e Liguori «Nuovo Medioevo»), «intorno a sé Gregorio vede soprattutto feretas gentium e furor regum», un caos privo di senso e di civiltà che non lascia immuni nemmeno le donne, specialmente le sovrane guerriere come Fredegonda e Brunilde, la cui crudeltà è presentata come tanto sfrenata da essere ormai oggetto di profonda revisione storiografica. Il maestro di Oldoni, Gustavo Vinay, iniziatore della mediolatinistica italiana insieme a Ezio Franceschini, aveva ben compreso, commentando Gregorio, che «al di là del rigorismo e del legittimismo clericale è sempre esistita nel medioevo una morale diversa, epica appunto, non legata ad alcun comandamento».
Unica luce in tanto sgomento, specie nei rari momenti di unità del popolo Franco con i suoi governanti, sono per il vescovo di Tours le donne e gli uomini santi, molti dei quali coevi, che avevano avuto influssi benefici e salvifici anche sulle difficoltà sue e della sua famiglia. A essi, che rappresentano un modello valoriale alternativo, Gregorio apre squarci narrativi anche nelle Historiae, ma soprattutto dedica integralmente opere specifiche come il De virtutibus sancti Martini, ora ben tradotto e ampiamente commentato da Silvia Cantelli Berarducci nei «Millenni» Einaudi (I miracoli di san Martino, senza latino a fronte, pp. CLXXII-509,euro 80,00). «Resoconto dei miracoli che avvengono presso la tomba del beato Martino a Tours o in connessione ad altre sue reliquie», questo tipo di testi rappresenterebbero secondo la curatrice la «progressiva apertura delle élites colte romane a una religiosità popolare che ne avrebbe compromesso la componente specificamente monoteista», legittimando il culto di santi e reliquie, accompagnati da un crescente repertorio di narrazioni.
Si tratta di fonti, quelle agiografiche, in passato disprezzate come devozionali ma negli ultimi decenni rivalutate come testimonianze insostituibili di cultura popolare e dinamiche sociali: a questo mutamento di paradigma storiografico, acquisito ormai dagli anni ottanta del secolo scorso (in Italia grazie soprattutto a Claudio Leonardi e Sofia Boesch Gajano), è dedicata parte consistente dell’imponente introduzione (163 pagine). Martino in particolare, a partire dagli instant book che gli dedicò Sulpicio Severo a fine IV secolo, è secondo Cantelli espressione di una santità che, staccandosi dai modelli eremitici e anacoretici dell’Oriente, si esplicita in attività sociali e assunzione di responsabilità pubbliche ed è insieme segno di una nuova attenzione alle realtà locali rispetto a una cultura imperiale sentita ormai come remota: un atteggiamento che si comprende in continuità con la posizione dell’aristocrazia galloromana ostile agli ultimi imperatori, troppo disposti a compromessi con i goti adepti dell’arianesimo che proprio Martino combatterà nella regione a rischio, confinante col regno visigoto.
Gregorio raccoglie così in quattro libri una serie di miracoli operati per intercessione del santo, basandosi su testimonianze orali o esperienze autoptiche o resoconti scritti, attraverso procedure di documentazione certo lontane dai rigori dell’attuale processo di beatificazione ma di cui Cantelli cerca comunque di ricostruire per via ipotetica o deduttiva un iter burocratico legittimante. I nomi dei miracolati sono forniti solo quando conosciuti personalmente dall’autore, il che dissolve l’effetto di realismo che altre raccolte analoghe creano, come avviene nel IX secolo con la Translatio Marcellini et Petri di Eginardo, il biografo laico di Carlo Magno che è anche il primo a raccontare storie di trafugamenti e furti di reliquie, con relativi miracoli. Il confronto con Eginardo, la cui orchestrazione narrativa di scenari, trame e personaggi appare magistrale ancora oggi, rivela la povertà narrativa di questi raccontini merovingi, che raramente superano la dimensione di una pagina e che certamente non vogliono essere letteratura quanto documentazione edificante. Elencano in medaglioni di poche righe guarigioni da cecità, mutismo, paralisi, fratture, naufragi fluviali, da quella che oggi si chiamerebbe «distrofia muscolare», perfino da impiccagioni, da tempeste, da malattie mentali, febbri e dissenterie, chiragra e podagra, convulsioni e paresi isteriche, emorragie ed eritemi. Anche se di tanti personaggi, nonostante la consulenza medica dichiarata a fine Introduzione, spesso non si può dire altro se non che erano «storpi», la sfilata di casi presentata da Gregorio ci fornisce, come sempre avviene in questo genere di archivi clinici, un campionario della sofferenza e della disabilità estremamente prezioso per gli studi antropologici; tanto più che, anche dove non si citano i nomi, spesso si menzionano le zone di provenienza dei malati e talvolta le spiegazioni di tipo «magico» (colpe dei genitori, violazione di norme religiose) che la cultura popolare forniva e che Gregorio faceva proprie senza troppe sottigliezze teologiche: perché un bambino dovrebbe pagare sul proprio corpo i peccati dei genitori?
Di diverso interesse i casi di liberazione dei prigionieri, che talora si riferivano a vittime di soprusi giudiziari istruiti dall’avidità dei magistrati, una prassi talmente diffusa da essere tematizzata nel IX secolo in un intero poemetto, il Contra iudices di Teodulfo di Orléans, la cui prima traduzione italiana sarà prossimamente oggetto di un volume della Fondazione Valla. Anche per questa tipologia Cantelli mette in guardia dalla tentazione di farsi suggestionare dalla serialità ipnotica degli schemi, che nei dettagli minori cela invece varietà sociali e antropologiche di rilevante evidenza.
Su questa base di testimonianze, aneddoti e leggende il miglior poeta dell’epoca, Venanzio Fortunato da Valdobbiadene, scrive più o meno negli stessi anni un poema in quattro libri, anch’esso sulla vita di san Martino: i suoi scontri col potere civile (all’epoca ancora romano) e con gli eretici, le sue guarigioni, la sua lotta ai resti del paganesimo, i suoi interventi benefici, i suoi miracoli in vita, le sue fondazioni religiose, cominciando dall’episodio del mantello tagliato per coprire il povero, scenetta apparentemente banale ma celebrata nell’iconografia cavalleresca di mezza Europa. Anche su questo poema, che come modello strutturale sostituirà l’Eneide fino al XII secolo, il medioevo imparerà a comporre versi, abituandosi a dissolvere la continuità della narrazione in una modalità nuova e seriale, basata sulla giustapposizione di quadretti-flash, che la critica (a noi) contemporanea ha denominato miniature epic, manifestazione della nuova estetica «cumulativa» che accomuna la letteratura all’arte dell’alto medioevo.