Maurizio Mochetti, “Freccia nera”, 1974, collezione privata

 

Esterno della galleria La Nuova Pesa nella nuova sede di via del Vantaggio a Roma

 

La storia ha inizio in Umbria. I Marchini sono una famiglia umile ma autorevole a Moiano, dove hanno fondato una fra le prime Case del Popolo. Alessandro Marchini è un uomo alacre, integro, severo. I figli, come si suol dire con espressione un po’ corriva, vengono messi su a pane e socialismo sicché, quando venne il tempo di passare ai fatti, nessuno di loro si trasse indietro. E ciò malgrado che, una volta trasferitisi a Roma, i Marchini, di semplici muratori che erano, fossero diventati costruttori.
Il figlio Alvaro rievocherà la lotta al fascismo in una autobiografia per la quale riassunse il nome che aveva da milite partigiano, Andrea. Lo stile del libro è schietto, aperto, e, se si dovesse credere a una fisiognomica della scrittura, si potrebbe provare a scoprirne i segni in questi suoi lineamenti così franchi ed espansivi che si osservano nelle foto esposte all’Accademia Nazionale di San Luca a corredo della mostra Una storia nell’Arte I Marchini, tra impegno e passione (fino al 22 aprile, dal 20 maggio al 21 agosto a Foligno, Centro Italiano Arte Contemporanea, a cura di Fabio Benzi, Arnaldo Colasanti, Gianni Dessì, Flavia Matitti, Italo Tomassoni), dove è ricostruita parte della collezione di Alvaro. Raccolta che andò formandosi pian piano, assieme al gusto per l’arte dell’imprenditore che il 23 aprile 1959 aveva inaugurato la Galleria La Nuova Pesa al primo piano di via Frattina 99. Era l’epoca delle grandi gallerie romane: L’Attico di Sargentini, La Tartaruga di De Martiis, L’Obelisco della Brin e del marito Del Corso…, ciascuna con la propria specificità; e codesta specificità ne faceva come pezzi di una scacchiera che si allunghino su un proprio novero di caselle, malgrado qualcuno talora, con mossa obliqua di cavallo, soffiasse un artista all’altra.
Qual era dunque il carattere della Nuova Pesa, la cui vicenda storica è stata studiata negli anni, con la competenza che gli è solita, da Giuseppe Appella, studî che fanno da base all’iniziativa attuale? Stupisce, dice Matitti in catalogo, l’immagine adottata come emblema dalla galleria – Furio Camillo che getta la sua spada sul piatto della bilancia –, stupisce se si considera l’interesse pressocché esclusivo di Alvaro per l’arte contemporanea. Tanto più che l’immagine in sé ha un certo gusto antichizzante che ricorda il De Carolis. Ma sorprende ancor più, continua la studiosa, il contrasto fra quell’episodio di belluina fierezza e i propositi concilianti nei riguardi delle avverse tendenze artistiche espressi da Marchini in una intervista al Paese sera. In quella figura si nascondeva, infatti, «nemmeno troppo celata, una sorta di chiamata alle armi contro i barbari astrattisti». Eppure, dal tempo delle dichiarazioni di Togliatti sull’indirizzo che doveva prendere l’arte, molte partizioni s’erano andate sfumando. Ed era giunta da più parti l’esigenza di riconsiderare il problema. A questo imperativo la galleria di Marchini rispose.
I contributi dei curatori sono chiari in questo senso, ma più ancora lo sono le opere. Cosa troviamo passeggiando attraverso le sale dell’Accademia? Si inizia con un magnifico De Chirico, Villa romana: una protervia d’alberi asserragliati e fitti, con un che di palustre in quelle foglie imbevute di fosco umidore: una ballata nordica, böckliniana, malgrado il soggetto, che fa pensare al Rilke del Canto d’amore e morte dell’alfiere Christoph. Accanto qualcosa di affatto diverso: un bellissimo Balla: Ritratto di Ettore Roesler Franz a Villa d’Este, fresco, luminosissimo, materiato, si direbbe, dei raggi stessi del sole estivo. Le due tele di Magritte, L’amour e La science des rêves, nella sala successiva ci riportano, è vero, sulla via di un certo simbolismo nordico, ma la Nature morte di Léger subito ci ricorda come nel 1963 la Galleria avesse ospitato una personale di questo artista, come, un paio d’anni prima, aveva fatto con Picasso.
Così, di sala in sala, scopriamo quanto poliedrica e problematica possa essere l’arte di figura, quanto lontano da un’unica ortodossia, quante voci possa assumere e quanto diverse, quanto opposte. D’altronde, lo stesso Antonello Trombadori, che ebbe un ruolo eminente nelle scelte della Nuova Pesa, «accanto alla pittura realista, di ispirazione politico-sociale» nutrì sempre «la passione per una pittura simbolista, onirica e primitivista»: sua fu l’idea di dedicare una retrospettiva al grande pittore Arturo Nathan.
Ma non ci distogliamo dagli oggetti: ci sono Ponte Fabricio, Ponte Garibaldi di Francesco Trombadori, calcinati, come sospesi in una gessosa immobilità salina: paiono ricordare, a tratti, la pittura romana del Valenciennes. Qualcosa di minerario, al di là del titolo, è anche ne I sassi di Fausto Pirandello: rappresentazione del quotidiano quasi cruda, rupestre, vicina, assai più che all’universo poetico del padre Luigi, a quello espressionistico delle novelle di Tozzi. Ci sono dei Guttuso del genere che conosciamo, come Fucilazione di patrioti, ma dello stesso artista c’è un magnifico arazzo, Prato d’autunno, molto vicino all’astrazione. Poco discosti, anche alcuni lavori sui quali sembra, invece, esser passato come un soffio settecentesco: si vede Pane e acqua della Broglio, si pensa a Chardin; si osserva la Bagnante di Donghi e la mente corre a Liotard. La galleria seppe anche riconsiderare problematicamente il passato, come fece in occasione della mostra 31 autori e 31 opere del rinnovamento artistico italiano dal 1930 al 1943, dedicata a uno dei periodi più discussi dell’arte italiana, o, meglio, meno, perché si era preferito alla spicciolata obliterarlo.
Alla figuratività primonovecentesca si lega, invece, uno dei nuclei più interessanti della collezione: un florilegio di magnifici disegni dell’espressionismo tedesco: alcune tavole delle serie I Banditi e Il volto della classe dirigente di Grosz, lo studio per Vecchia seduta di Dix, che ricorda certe allegorie medioevali della Carestia, o ancora Risveglio di Kirchner con le sue durezze d’arte primitiva.
Poi, nel 1976, la Galleria chiuse. Fu la figlia di Alvaro, Simona, a riaprirla. Era il 1985. Nel catalogo il racconto di questa rinascita è affidato ai ricordi dei suoi protagonisti. Forse non tutto allora dovette capitare per serendipità, come sembra emergere da queste pagine. E le difficoltà organizzative, il carattere talora difficile degli artisti deve avere preso oggi, nel rievocarsi, un po’ di quella smussatura che tutte le cose acquistano con l’andar del tempo. Si può però credere che il desiderio di rinnovamento, l’entusiasmo, la febbre di ricerca fossero incessanti, galvanizzanti quasi. E La Nuova Pesa, una volta rinata, si concentrò, soprattutto, sulle personali di singoli artisti, più che su gruppi e tendenze, con un carattere apertamente polifonico. Lo dice Dessì nell’introduzione al volume: la galleria di Simona «offrì spazio allo sviluppo di esperienze oramai scevre di posizionamenti ideologici, se non quelli legati propriamente all’arte, alla sua capacità di offrire visione e presenza». Ma lo dice anche la varietà degli artisti esposti in quest’ultima sezione, Tacchi, Scialoja, Kounellis, De Dominicis, o forse lo diceva già, in avvio del percorso, la Freccia nera di Maurizio Mochetti, di un’epoca, il 1974, in cui alcune contrapposizioni estetiche andavano già «compiendosi in sintesi inedite». Freccia non fissa, non direzionata verso un unico punto ma, legata com’è a un filo di nylon, mobile, sensibilissima alle vibrazioni del mondo.