I soliti noti, le abituali e meravigliose autorialità ormai da alcuni anni abbonate al circuito festivaliero internazionale. Tutto come previsto quest’anno a Cannes con i nomi di Naomi Kawase, Hirokazu Kore’eda, Kiyoshi Kurosawa e Takashi Miike, registi che presenteranno i loro lavori in riviera, in competizione e nelle sezioni laterali, una presenza che ci dice molte cose sullo stato, registico e produttivo, del cinema giapponese contemporaneo, ma anche delle preferenze di Cannes verso certi tipi di autorialità già ben formate e lanciate. Significa che al momento il Sol Levante cinematografico, pur restando un territorio sempre interessante e da seguire con attenzione, non ha (ancora) quei talenti emergenti, a livello di scrittura, regia e produzione, capaci di creare quello scarto per far il salto di qualità e sorprendere, e questo per motivi complessi che non è il caso di esaminare in questa sede.

Dall’altra parte poi c’è la fissazione di Cannes per quei quattro o cinque autori: Kitano non è stato chiamato perché il suo ultimo film, Ryuzo and The Seven Henchmen, è un lavoro comico e divertente ma non all’altezza del suo passato, fra cui manca puntualmente Tsukamoto, forse troppo indie, un ristretto numero di registi il cui cinema ha certamente un taglio di respiro più internazionale e delle qualità non discutibili ma che ci dice quanto al festival francese non piaccia tanto rischiare o sorprendere.
In competizione troveremo Our Little Sister di Hirokazu Kore’eda alla sua quarta partecipazione, l’ultimo suo lavoro, Like father, Like Son si aggiudicò il premio della giuria due anni fa e rimane al momento il film di Kore’eda che ha più incassato in patria. Ancora una volta si tratta di un dramma familiare, «genere» che Kore’eda ha ormai fatto suo da parecchi anni, fin dai suoi inizi nel mondo del documentario, la storia è quella di tre sorelle che incontrano per la prima volta la più giovane sorellastra quattordicenne in occasione del funerale del padre. I temi della perdita di una persona cara, della memoria condivisa e dei rapporti familiari che ruotano attorno ad essa, anche quando sono indiretti, sono il centro pulsante del film che, manco a dirlo, è tratto da un popolare manga, Umimachi Diary di Akimi Yoshida.

Fra gli interpreti, nel ruolo della vecchia madre troviamo Kiki Kirin, un volto già visto in altri lavori di Kore’eda come Still Walking, attrice che ritroveremo anche nella sezione un Certain Regard in AN, l’ultima fatica di Naomi Kawase. La regista giapponese condivide con Kore’eda anche un passato, che è anche presente per dir la verità, nel mondo del documentario, genere che la lanciò giovanissima negli anni novanta. Qui a Cannes con AN l’autrice racconta l’amicizia tra un pasticcere specializzato nella produzione di dorayaki, i tipici dolcetti giapponesi farciti con anko, ed un’anziana signora, interpretata appunto da Kiki Kirin.
Nella stessa sezione troveremo anche Journey By the Shore di Kurosawa Kiyoshi, un mistery metafisico con protagonista Tadanobu Assano nella parte di un uomo che ritorna da sua moglie dopo tre anni di assenza. Una storia che è tratta da un libro di Kazumi Yumoto, autore che aveva ispirato anche il notevole My Man del 2014, con lo stesso Asano come protagonista e diretto da Kazuyoshi Kumakiri. Kurosawa dopo la gavetta fatta durante gli anni ottanta nei pink eiga, i film softcore giapponesi, e rivelatosi al pubblico giapponese ed internazionale a cavallo fra i due millenni attraverso il genere horror, è diventato, nel corso di questo ultimo decennio, un abituè del circuito festivaliero mondiale. Nel 2008 con il suo Tokyo Sonata ha fatto un salto verso un cinema che prima non frequentava spesso, o almeno non così direttamente, un film che lo ha definitivamente lanciato come, bruttissima parola, «autore» tanto da comparire in molte best 10 list di critici e riviste specializzate alla fine dell’anno.

Ma Kurosawa rimane un regista proteiforme e così nel 2012 realizza la serie televisiva Penance, che portò anche a Venezia ed è di due anni or sono la sua partecipazione al festival del cinema di Roma dove vinse il premio come miglior regia con Seventh Code, proprio per questa sua capacità di cambiare e di non accontentarsi mai, dei quattro giapponesi a Cannes resta forse quello da seguire di più. Lo dimostra anche il fatto che il prossimo lavoro di Kurosawa sarà prodotto e girato interamente in Francia, perché come ha dichiarato lui stesso a proposito del film «si tratta di un film basato su un’idea originale e in Giappone è praticamente impossibile ottenere i finanziamenti per un lavoro che non sia un adattamento di un franchise o di un manga e che abbia un budget di un certo spessore». Parole taglienti che gettano un po’ più di luce su quanto si scriveva più sopra a proposito della situazione cinematografica giapponese.
Conclude la quaterna giapponese a Cannes, Takashi Miike che godrà di una proiezione speciale all’interno della Quinzaine des Realisateurs per il suo Gokudo daisenso, Yakuza Apocalypse: The Great War Of The Underworld, film di cui si parla nei circoli cinefili nipponici già da parecchi mesi. Stando alle parole dello stesso Miike l’action-thriller è un ritorno alle origini per il regista, il trailer che gira già da un po’ di tempo non ha fatto altro che confermare che si tratta probabilmente dell’ennesima follia targata Miike, in senso positivo naturalmente, basti dire che il protagonista delle vicende è uno yakuza vampiro e che uno dei protagonisti è un enorme pupazzo rana.
Per chi ne avrà l’occasione ed il tempo poi, nella sezione classici restaurati sarà possibile rivedere due gemme dalla tradizione cinematografica nipponica, Zangiku monogatari (La storia dell’ultimo crisantemo) di Kenji Mizoguchi del 1939 e Jingi naki tatakai (Lotta senza codice d’onore) di Kinji Fukasaku del 1973, film che molto influì nella mutazione del cinema giapponese dell’epoca.