Trg žrtava fašizma. Significa piazza delle vittime del fascismo, ed è la scritta che campeggia sul manifesto affisso a una delle pareti dell’ufficio di Zoran Pusic, presidente del Comitato civico per i diritti umani (Goljp). Il nome di questo slargo deriva dal fatto che proprio da lì, durante la Seconda guerra mondiale, oltre 60mila persone vennero deportate nei campi di concentramento. Nel 1990 la piazza, sulla scia delle «bonifiche» storico-culturali imposte dall’ex presidente Franjo Tudjman, artefice dell’indipendenza e padre del moderno nazionalismo croato, fu intitolata ai grandi della patria. «Ma nel 2000 ha ripreso il vecchio nome e noi del Goljp siamo stati in prima linea, in questa battaglia. Espellere il retaggio della grandeur di Tudjman da quella spianata era una priorità», dice Pusic.

Da oltre vent’anni quest’uomo è impegnato sui fronti della giustizia e della memoria. Spesso ha assunto posizioni scomode. Profane, rispetto alla teoria della guerra difensiva e pura snocciolata dalla destra di Zagabria. Con lui abbiamo cercato di capire in che misura il peso del nazionalismo degli anni ’90 si riverbera ancora sulla scena civile e politica della Croazia, che da lunedì diverrà a tutti gli effetti il ventottesimo stato dell’Unione europea.

Retaggi dell’era Tudjman influenzano ancora i comportamenti politici e sociali?
Si sentono ancora, non posso negarlo. Ma nel corso del tempo il quadro è variato. Oggi anche la destra ammette che negli anni ’90 furono commessi dei crimini, sebbene sono pochi gli esponenti di questo campo che attribuiscono questi stessi crimini a precise scelte dell’allora governo. Credo inoltre che sarebbe impensabile assistere a manifestazioni come quella del 2003, quando la gente invase le piazze di Spalato in occasione dei dieci anni di carcere comminati a Mirko Norac, primo generale croato a essere condannato dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia, con sede all’Aja.

Eppure quando a novembre, in appello, il Tribunale dell’Aja ha prosciolto il generale Ante Gotovina, cancellandone la precedente condanna a 24 anni per crimini di guerra e rimettendolo in libertà assieme a un altro alto ufficiale, Mladen Markac, decine di migliaia di persone si sono ritrovate su piazza Jelacic, a Zagabria, a festeggiarne il ritorno a casa.
Quello di Ante Gotovina è un caso particolare. I media e i politici hanno creato una sorta di supereroe, propagandandone con ritmi martellanti meriti e imprese. In ogni caso, sia il presidente della repubblica Ivo Josipovic che il primo ministro Zoran Milanovic (entrambi socialdemocratici) sono stati chiari nel dire che la sua scarcerazione non deve indurre a dimenticare che ci sono consegne da rispettare, in tema di giustizia. Che ci sono dei crimini che vanno ancora perseguiti. Il senso, insomma, è che i generali sono stati dichiarati innocenti, ma la Croazia non può dirsi tale. Simili discorsi erano impensabili, fino a qualche anno fa. L’Europa e il percorso di avvicinamento a essa, assieme all’azione fisiologica del tempo, hanno elevato i livelli e il senso della giustizia.

A quanto pare la sentenza d’appello del processo Gotovina verrà impugnata. Il procuratore capo dell’Aja, Serge Brammertz, s’è detto propenso a riaprire il caso. Ma al momento Gotovina è un uomo libero. C’è chi non esclude una sua discesa in campo. È realistico pensarlo?
Non oso sbilanciarmi. Gotovina sta limitando le uscite pubbliche. Dopo il ritorno in Croazia non ha fatto discorsi rilevanti, escluso quello in piazza Jelacic, davanti a tutta quella folla. Nell’occasione ha suggerito di guardare al futuro e non al passato. Pochi giorni dopo, in un’intervista a un giornale belgradese, Kurir, ha invitato i profughi serbi della Croazia a tornare alla loro vecchie case. Queste frasi hanno deluso, se non irritato la destra. C’è persino chi ha detto che il generale parla ormai il linguaggio delle Ong. Non saprei se Gotovina è sincero, recita un copione o sta manifestando, ecumenicamente e cristianamente parlando, un senso di colpa e di perdono. Né è il caso di avventurarsi in pronostici su un suo ingresso in politica.

L’operazione tempesta (Oluja), con cui Gotovina riconquistò nel 1995 gli spicchi di Croazia controllati da Belgrado, ebbe davvero poco di ecumenico.
Alcuni dicono che Oluja è stata un’iniziativa militare a bassa intensità, altri che è la più grande operazione militare del ‘900. Il mio giudizio, semplicemente, è che c’era un piano di pulizia etnica premeditato. Altrimenti, al termine delle ostilità, Zagabria avrebbe invitato gli sfollati serbi – almeno 200mila – a riprendere possesso delle abitazioni. Invece il governo sigillò la frontiera e impose leggi restrittive, offrendo uno spazio di soli 45 giorni a chi voleva tornare. Le intenzioni erano ovvie, insomma. Un’ulteriore conferma viene dal fatto che il posto dei serbi fu preso dai profughi croati della Bosnia. Alla luce di questo mi sento di dire che qualunque sarà l’esito finale del caso Gotovina, quei crimini ci sono stati. Quanto al merito della sentenza d’appello, a mio avviso è sbagliata. Gotovina, eseguendo gli ordini di Tudjman, contribuì all’intento di fare pulizia etnica.

Com’è l’attuale situazione nella regione di Knin – teatro di Oluja – e in tutti i territori dove fino al 1995 c’era una maggioranza serba?
All’incirca 100-110mila serbi sono tornati e godono pressoché di tutti i diritti essenziali (casa, voto, welfare). Il tasso dei ritorni, rispetto a certi altri contesti ex jugoslavi, è buono. Ma a rientrare sono stati più che altro gli anziani. Del resto quelle sono aree perse della Croazia. Prima della guerra il tenore di vita era decente. C’erano fabbriche, lavoro e protezione sociale. Con il conflitto queste infrastrutture sono andate distrutte o abbandonate. Adesso l’economia è sostenuta artificiosamente dallo stato, ma non basta. Le prospettive sono scarse. Al di là degli anziani non tornerà più nessuno.
La Croazia è in grave crisi economica. Questo può ridare linfa al nazionalismo?
L’attenzione dei cittadini e dei media non verte più, come prima, sulle vicende degli eroi/criminali di guerra. Oggi in cima all’agenda ci sono la corruzione e il corto circuito tra affari e politica. Ma non è da escludere che il malcontento generato dalla precaria congiuntura economica possa saldarsi ai mai sopiti rigurgiti nazionalisti o alimentare nuovamente le teorie, cicliche, sui nemici esterni. Non solo in Croazia. Bisogna essere vigili.

Lei fa parte del consiglio dell’Iniziativa Igman, importante foro di dialogo regionale. La lotta ai nazionalismi passa anche dalla qualità delle relazioni tra le ex repubbliche jugoslave?
Assolutamente. Dialogo e cooperazione sono strumenti fondamentali. L’Iniziativa Igman (prende il nome dal monte che sorge alle spalle di Sarajevo), da quando è nata, nel 2001, punta a promuovere l’idea che i Balcani possano diventare una regione di pace e diritti sociali, con un’economia dinamica. Qualche progresso, in questi anni, c’è stato. Il modello da seguire è quello dei paesi nordici e del Consiglio nordico (una specie di Commonwealth scandinavo-islandese). So che è utopico, ma bisogna pur sempre nutrire dei sogni.