Vengono da tutti gli stabilimenti Eni di Italia e si sono dati appuntamento oggi a Roma, in piazza Santi Apostoli: i dipendenti del colosso energetico sono già al terzo sciopero nell’arco di un paio di mesi, e non si arrendono. Chiedono al gruppo guidato da Emma Marcegaglia e Claudio Descalzi di non dismettere i gioielli dell’industria italiana – uno per tutti, Versalis – e di tornare a investire su siti dal futuro appannato: Gela, Porto Torres, Porto Marghera, tanto per citare quelli che nelle ultime settimane hanno riempito le cronache con le loro proteste.

Il timore di Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil è che l’Eni si stia progressivamente disimpegnando rispetto alla sua presenza italiana, e che via via pezzi sempre più consistenti di industria – accanto a realtà già a rischio come l’Ilva o l’Alcoa – si avviino verso un futuro incerto. Con l’arretramento del pubblico, e con il governo che sostanzialmente lascia fare, senza intervenire.

Per questo i sindacati hanno indirizzato una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e hanno chiesto un incontro al premier Matteo Renzi e alla ministra dello Sviluppo Federica Guidi: per poter parlare del futuro della multinazionale.

Ci espone le preoccupazioni del sindacato Paolo Pirani, segretario generale della Uiltec. «La faccenda è complessa e ha tanti aspetti – spiega – Eni è già stata indebolita con la cessione di Snam, sotto il governo Monti: a nostro parere sbagliata, perché è venuto a mancare un polmone finanziario, senza peraltro portare vantaggi ai clienti, che non hanno visto abbassarsi le bollette del gas. Poi è stata ceduta Saipem: bene che Eni non abbia dovuto sostenere i debiti dopo la caduta in Borsa di qualche tempo fa, ma adesso a livello internazionale sono stati annunciati 8 mila esuberi e noi speriamo che l’Italia non venga toccata: per questo incontreremo l’ad il 2 marzo».

Il sindacato critica «la scelta, fatta propria dalla gestione Descalzi, di restringere sempre di più il perimetro di azione di Eni – in special modo sul piano industriale e nella sua presenza italiana – per diventare una trade oil company internazionale», specializzata cioè nella commercializzazione del petrolio. «Strategia che con il greggio a prezzi molto alti, fino a qualche tempo fa, avrebbe portato a dismettere la raffinazione, mantenendo la produzione chimica – prosegue Pirani – Ma oggi che il barile ha raggiunto i minimi storici, si fa invece marcia indietro sulle raffinerie e i petrolchimici – mantenendoli nel perimetro, ma senza investire adeguatamente – e si sceglie di cedere la chimica di Versalis perché non si hanno, ci è stato detto, i margini sufficienti per farla sviluppare».

Versalis conta 4 mila dipendenti in Italia, 2 mila sono gli addetti dell’indotto. Ha quattro centri di ricerca, e 250 brevetti: «È l’erede della Montecatini, di Montedison, della Enichem, della storia della chimica italiana – spiega il segretario Uiltec – Tutti ricorderanno Giulio Natta e l’invenzione del Moplen, che rivoluzionò l’industria e i consumi. Ebbene, possibile che dobbiamo dismettere un gioiello simile?».

Eni, la cui quota di controllo del 30% è in mano allo Stato, a sua volta controlla il 100% di Versalis, e adesso – l’operazione si potrebbe definire già in marzo – è decisa a cedere il 70% al fondo statunitense Sk Capital.

La ministra dello Sviluppo Guidi, rispondendo mercoledì a una interrogazione parlamentare, ha cercato di rassicurare i sindacati: il governo starebbe «monitorando» la sostenibilità dell’operazione. Ma i lavoratori temono che Sk non sia il soggetto giusto per lo sviluppo di Versalis: «Siamo già riusciti a convertire al verde il 55% delle produzioni di Versalis – spiega Pirani – ma per completare il progetto servono almeno altri 1,2 miliardi, come avevamo calcolato con la stessa Eni. Il 2015 è stato il primo anno in cui si è avuto un profitto, quello verso il green è un processo lungo ma necessario: Sk assicura soltanto 3 anni per l’occupazione e 5 per il mantenimento degli stabilimenti. Non è un tempo adeguato, ma soprattutto non è adeguato che un piano così complesso e delicato finisca in mano a un fondo di private equity: perché rischia di venir meno l’obiettivo di uno sviluppo industriale».

I sindacati sarebbero più tranquilli se la maggioranza rimanesse in capo al pubblico, senza per questo escludere joint ventures: «Magari con soggetti italiani, e non per forza esteri. E comunque potrebbe intervenire Cassa depositi e prestiti per mantenere il controllo al pubblico», dice Pirani.

Allo stesso modo, preoccupa Gela: dove «la trasformazione verde della raffinazione procede a stento», e che il petrolchimico fatichi a ripartire lo hanno denunciato anche gli operai, con i blocchi degli ultimi mesi. E Porto Marghera? «Ho saputo – dice il segretario Uiltec – che nel piano che il Comune ha presentato al ministero dell’Ambiente, l’area dove oggi c’è la raffinazione viene destinata alla nuova stazione marittima. Ecco, per tutti questi motivi vorremmo avere dei chiarimenti da Eni».

Il futuro dei 30 mila dipendenti italiani di Eni, insomma, preoccupa: da Ravenna a Priolo, fino a Porto Torres, sito della Versalis. «Lì si è investito per riconvertire la produzione, creando il polo dei sacchetti biodegradabili: solo che ora la Germania blocca la direttiva che imporrebbe di renderli obbligatori in tutti gli Stati Ue. E così l’export arranca». E in Sardegna, dopo i casi Alcoa e gli allarmi nel Sulcis, l’occupazione non è certo messa bene.