Sarà convocata e giudicata «in presenza» il 24 maggio l’ex leader de facto del governo birmano Aung San Suu Kyi.

Un processo farsa: l’accusata – con cinque capi di imputazione – non ha mai visto i suoi avvocati. Una farsa su cui sono puntati gli occhi del mondo e del Movimento di disobbedienza birmano. È l’ennesimo passo verso un baratro che ogni giorno vede aumentare la violenza e trascinare il Paese verso uno scenario da guerra civile.

Al momento i timidi spazi negoziali aperti dal vertice dell’Asean di alcune settimane fa sembrano tramontati: il governo clandestino (Nug) si rifiuta di incontrare i militari della giunta mentre la giunta lo bolla di terrorismo. Da oggi il Nug, la Commissione parlamentare (Crph) che lo ha nominato e le Forze popolari di difesa (Pdf) civile appena create per difenderlo, sono considerati gruppi terroristici e chi avesse a che vedere con loro rischia 10 anni di galera. I militari golpisti vanno oltre e sbattono la porta anche loro in faccia all’Asean, l’organizzazione regionale del Sudest su cui tutte le carte negoziali erano puntate.

La giunta di Min Aung Hlaing aveva promesso di accogliere un inviato speciale Asean in Myanmar ma ha poi reso noto che non potrà venire fino a quando non sarà stata ristabilita la calma. Sembrano così chiudersi tutte le finestre che avevano acceso una fiammella nel tunnel del golpe del 1 febbraio che da allora ha già ucciso più di 780 persone e ne ha incarcerate quasi 5mila di cui oltre 3.800 restano dietro le sbarre. E mentre si restringe lo spazio del dialogo e anche la pressione internazionale sembra essersi allentata, gli scontri, gli arresti, le azioni di guerriglia urbana continuano accompagnate dalla guerra vera lungo i confini tra le armate regionali (Ethnic Armed Organizations/EAOs) e Tatmadaw, l’esercito nazionale fedele alla giunta.