C’è chi si candida a rinnovare il lavoro di Kant per la pace perpetua, chi in questa o quella lista progressista che promette la rinascita della socialdemocrazia. Encomiabile preoccupazione, generosa disponibilità. A patto di compiere un piccolo sforzo di modestia e di realismo al tempo stesso.

Misurando intanto la distanza dalla condizione nella quale i confinati di Ventotene, nel pieno disastro della guerra mondiale, misero nero su bianco la loro visione contro le cause dell’orrore che l’Europa stava vivendo. Quando ancora erano i fascismi a fabbricare la “coscienza” per il popolo e gli europei si facevano reciprocamente a pezzi.

L’Europa oggi è tante cose, ma per le giovani generazioni è soprattutto una forma di vita e una condizione materiale. Per dirla con una espressione tanto classica quanto desueta è un essere sociale che determina la coscienza. La permeabilità dei confini, la circolazione delle idee e delle pratiche, la cooperazione sociale, il reciproco riconoscersi e mettersi in relazione, sono questi i “commerci” che possono sostituirsi alla guerra, diversamente da quelli borghesi cui Benjamin Constant pensava un paio di secoli fa di affidare la garanzia della pace con gli esiti che abbiamo sperimentato. Che l’esercizio di queste libertà e della loro autonomia produttiva sia sistematicamente ostacolato dal patto scellerato tra le élites nazionali (comprese quelle che si proclamano squisitamente europeiste) che tiene in ostaggio l’Unione europea non cancella la forza di questa realtà e delle abitudini che già ha sedimentato.

E’ invece proprio sul versante dell’“idea di Europa”, che si tirino in ballo, a seconda dei gusti, le radici giudaico-cristiane, la cultura latino-germanica della corte di Teodorico, i presocratici o l’illuminismo, che l’ideologia xenofoba e nazionalista trae a suo modo alimento. Non vi è destra, infatti, che non si richiami in una forma o nell’altra, a una qualche “idea di Europa”. Mettendola al servizio di quella fabbrica del consenso che si fonda su temibili promesse di protezione e di purezza identitaria.

Gli europei che vivono lo spazio dell’Unione come un habitat naturale incomprimibile, sia pure in attrito con le costrizioni imposte dalla sua architettura liberista e inter-statale, non hanno alcun bisogno che qualcuno gli rechi in dono una “coscienza europeista”. Sono cittadini europei in sé e per sé, se vogliamo fare ricorso alla classica formulazione filosofica. La restaurazione di vecchi confini, politici e culturali, l’integrale affidamento a una sovranità statale che si vuole espressione di uno specifico interesse nazionale grondante ideologia non può che apparire come qualcosa di estremamente innaturale e costrittivo.

Non tutti gli abitanti del Vecchio continente, beninteso, percepiscono la restrizione dello spazio europeo in questo modo. Ma sono molti, e soprattutto giovani a considerare insopportabile l’involuzione in corso. Purtroppo danneggiati da uno svantaggio demografico che ha per molti versi rovesciato i rapporti di forze degli anni Sessanta e Settanta. Resta il fatto che nessuno dei grandi movimenti che calcano oggi la scena (quello delle donne, quello contro il cambiamento climatico, le azioni di solidarietà con i migranti) è concepibile entro una dimensione nazionale. E, soprattutto, l’intelligenza collettiva si sviluppa sempre di più lungo circuiti e reti, alla ricerca di risorse e di contesti favorevoli, che rendono ridicole espressioni come “fuga dei cervelli” o “rientro” dei medesimi, come se l’intelligenza dovesse avere una “patria” o comunque una vocazione alla stanzialità.

E’ a questa Europa che concretamente esiste e, a dispetto di tutto cresce e lotta fuori dagli uffici e dalle strutture decisionali dell’Unione, che bisognerebbe guardare e trarne qualche insegnamento. Il bisogno di uno spazio aperto e liberamente attraversabile, non è, come nella classica visione delle destre nazionaliste, quello di una élite privilegiata contrapposta ad un “popolo” affezionato al campanile e alla nazione. Si tratta, invece, dell’espressione di un desiderio di massa, di una ricerca largamente diffusa di nuove e maggiori opportunità. Non è la city contro un “popolo vessato” ad avversare la Brexit, come vorrebbero far credere gli ideologi del nazionalismo di diverso colore.

Se si riconosce dunque l’esistenza di questo “europeismo” praticato e vissuto come occasione di libertà non è certo una “pedagogia europeista” custode dei “valori” ciò di cui abbiamo bisogno. Basterebbe che le forze politiche della sinistra, e gli intellettuali che vi fanno riferimento, anteponessero alla crescita del proprio ruolo e prestigio nazionale la spinta che si sviluppa nella comunità reale degli europei e nel tessuto di relazioni che ne determina la coscienza. Sgombrando il campo dalle politiche e dalle rendite di posizione che la ostacolano.