La testa stilizzata di un «pugilatore» nuragico, appartenente al complesso di statue note come «Giganti di Monte Prama» (IX-VIII secolo a.C.), campeggia sull’etichetta di alcuni vini prodotti in Sardegna. D’altronde, è l’attuale governo regionale ad aver trasformato una delle più eclatanti scoperte archeologiche del ventesimo secolo, nel quadro dell’intero Mediterraneo, in un brand a uso e consumo dei turisti. Riproduzioni in 3D e fotografie in grande formato dei Giganti accolgono i visitatori negli aeroporti dell’Isola e, se a qualcuno dovessero sfuggire i messaggi di una comunicazione «culturale» spesso sconfinante nel fantasy, ci penserà il merchandising eno-gastronomico ad accattivare la curiosità. Gli elmi cornuti degli Arcieri – elementi del medesimo gruppo scultoreo – spuntano persino dalle cassette dei meloni del Campidano, per annunciare ai forestieri che in Sardegna anche il gusto è «gigante». Chissà se Sisinnio Poddi, il contadino che nel marzo del 1974 identificò fortuitamente la prima testa di pugilatore nel pianoro di Monte Prama, localizzato nel Sinis di Cabras (Oristano), sorrideva o bofonchiava quando ritrovava al supermercato quei volti dagli occhi a cerchi concentrici e ipnotizzanti, incorniciati da sottili trecce che scendono sul petto.
«Un aratro scopre un tempio punico», titolò La Nuova Sardegna del 31 maggio 1974: il soprintendente Ferruccio Barreca, infatti, aveva spontaneamente attribuito i materiali individuati in un cumulo di spietramento alla civiltà di cui era specialista. Tuttavia, lo smarrimento suscitato da una testa di calcare di grandi dimensioni e sconosciute fattezze, scalfita dal vomere come una zolla, era ciò che all’epoca accomunava profani e studiosi avvezzi soprattutto all’iconografia di bronzetti alti poco più di un palmo di mano, fusi col metodo della cera persa tra la fine dell’Età del Bronzo e gli inizi dell’Età del Ferro. Scomparso nel 2020, Poddi portava nel viso i segni di una terra soleggiata eppure aspra, che – come nelle più inaspettate avventure dell’umanità – elargì, a chi dalla vita raccoglieva solo fatiche, il dono di una memoria perduta.
Il ricordo di Sisinnio, messaggero inconsapevole della buona novella dell’archeologia nuragica, è ora affidato a uno dei pugilatori di Monte Prama, che le restauratrici e i restauratori del Centro di Restauro dei Beni Culturali di Sassari hanno affettuosamente battezzato con il suo nome. Lo scorso febbraio se n’è andato anche Alessandro Bedini, l’archeologo che nel 1975 – appena giunto a Cagliari con la qualifica di ispettore – venne chiamato a fare chiarezza sui ritrovamenti di Monte Prama. Nel ’74, ci fu anche un limitato saggio di scavo condotto da Giovanni Lilliu ma colui che negli anni cinquanta diseppellì «Su Nuraxi», il maestoso nuraghe complesso di Barumini costruito a partire dal XV secolo a.C., dovette accontentarsi del recupero di un torso di «gigante». Gli scavi di Bedini, organizzati nell’urgenza per la segnalazione dell’attività di tombaroli alle pendici nordorientali di Monte Prama, misero in luce una necropoli con tombe a pozzetto circolare e una strada costeggiata da un filare di sepolture a pseudo-cista, sovrastate da lastre. Il rinvenimento di frammenti di statue proprio a ridosso di tale copertura, oltre a delineare la natura cultuale del sito, permise di ipotizzare che le sculture si ergevano su quei basamenti e, quindi, sulle tombe.
Bisognerà attendere gli scavi di Carlo Tronchetti (inizialmente coadiuvato da Maria Luisa Ferrarese Ceruti) del 1977 e del 1979 perché il sottosuolo, oltre a confermare la connessione tra tombe e statue, restituisca nuove enigmatiche sculture, smembrate e disseminate nell’area archeologica come costellazioni di pietre. È lo stesso Tronchetti, fino al 2006 funzionario archeologo presso la Soprintendenza di Cagliari e Oristano e per vent’anni direttore del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, a raccontarmi il momento in cui si accorse che la fortuna gli aveva arriso. Dallo strato appena scavato riemerse una poderosa testa che egli volle fotografare durante tutte le fasi del sollevamento, per poi immortalarla frontalmente. Ne scaturì una di quelle immagini iconiche che innumerevoli volte i pionieri dell’archeologia catturarono in Grecia o nel Vicino Oriente, spinti dal desiderio di documentare non solo i capolavori dell’arte ma anche l’attimo e l’emozione della scoperta. Benché nel corso delle sue indagini Tronchetti abbia reperito diverse migliaia di frammenti relativi a betili, modelli di nuraghe, arcieri, guerrieri e altri pugilatori, quel volto così perfettamente conservato e di una bellezza «inclassificabile» – la foggia è piatta e triangolare, con il mento tagliato orizzontalmente; le arcate orbitali seguono uno «schema a T» e gli occhi, che rimandano a uno stile orientaleggiante, sono rotondi e a doppio cerchiello; la bocca è leggermente incisa – non smette di interrogarlo.
Tra il 2008 e il 2011, la medesima testa è stata ricongiunta al resto del corpo grazie a un vasto programma di restauro diretto da Roberto Nardi nei laboratori del Centro di Restauro di Sassari. Il pugilatore di quasi due metri di altezza – forse un guerriero armato alla leggera per la lotta corpo a corpo, forse un atleta che si esibiva in giochi sacri e cruenti in onore delle divinità e dei defunti – si presenta oggi con lo scudo rettangolare ad angoli arcuati, sorretto sulla testa da un pugno guantato. Il torso è massiccio, rivestito da un corto gonnellino a punta tenuto anteriormente da una fascia a lembi. Le minuziose operazioni di pulitura e «incastro», che hanno riguardato complessivamente 5178 frammenti (per un valore ponderale di dieci tonnellate), di cui 1883 pertinenti a statue e 776 a modelli di nuraghe, hanno consentito il montaggio di 28 «personaggi» (16 pugilatori, 6 arcieri, 6 guerrieri) e di 16 modelli di nuraghe. Esse hanno anche stabilito che le statue e i modellini delle torri che puntellano ancor oggi il paesaggio della Sardegna costituiscono un progetto unitario e sono scolpiti in un unico blocco di biocalcare (i modelli di nuraghe anche in parti lavorate separatamente e unite con incastri o con piombo), proveniente da cave dell’area di rinvenimento. Oltre a far conoscere il complesso statuario di Monte Prama nel mondo, il restauro ha dato impulso a nuove ricerche. Nel 2014, campagne di scavo coordinate da Alessandro Usai per la Soprintendenza di Cagliari e da Raimondo Zucca per l’Università di Sassari hanno favorito il recupero di due statue di pugilatori, la cui iconografia era fino a quel momento assente nel repertorio delle rappresentazioni antropomorfe di Monte Prama.
Tra il 2015 e il 2016 ulteriori indagini sono state svolte dalla Soprintendenza di Cagliari con la direzione di Usai. Al di là dei materiali ultimamente acquisiti e conservati nel Museo Civico Giovanni Marongiu di Cabras, restano da studiare e da assemblare 2519 frammenti dei vecchi scavi, depositati nel Centro di Restauro di Sassari – ideato dalla compianta Antonietta Boninu anche come scuola di alta formazione dotata di strumentazioni all’avanguardia –, che è attualmente (e colpevolmente) inattivo e privo di personale.
In attesa di una sede espositiva dedicata, in costruzione a Cabras, i Giganti continuano a essere divisi tra i musei archeologici della stessa Cabras e di Cagliari, mentre la valorizzazione è ora affidata a una Fondazione composta da Ministero della Cultura, Regione Sardegna e Comune di Cabras. Nell’ambito di questo recentissimo accordo, l’invio di un pugilatore a Berlino per la mostra «Sardegna Isola Megalitica» ripropone il problema della decontestualizzazione delle statue (nel 2012, una petizione promossa dall’archeologo Marcello Madau sollecitava la comunità scientifica nonché la società civile a opporsi alla divisione del gruppo scultoreo), evidenziando i limiti di una gestione miope e spesso strumentalizzata dalla politica, sia a livello locale che nazionale. Intanto, il silenzio avvolge la collina di Monte Prama, dove l’orizzonte antico dell’heroon della civiltà nuragica, verosimilmente distrutto dalla furia iconoclastica dei conquistatori Cartaginesi, è visibile solo agli dèi.