In una mossa senza precedenti un consorzio di costruttori automobilistici ha inviato appelli alla Casa bianca e al governatore della California sollecitando un accordo sulle normative ambientali.

Le lettere, firmate da 17 aziende, compresi giganti come General Motors, Toyota, Ford e Volvo (delle grandi solo Fiat-Chrysler si è defilata), chiedono che venga trovato un compromesso su una delle principali questioni che contrappongono la California al governo Trump e che minacciano di sfociare in una crisi costituzionale con conseguenze economiche ignote e potenzialmente catastrofiche.

La diatriba nasce dalla deregulation selvaggia attuata da Trump e in particolare dalla sistematica rottamazione delle politiche ambientali di era Obama (un ossessione personale del presidente). L’inversione di marcia sui limiti all’inquinamento atmosferico e agli scarichi delle auto ha messo il governo federale in rotta di aperta collisione con 50 anni di politiche ambientali che hanno portato la California all’avanguardia nella riconversione energetica e la protezione dell’ambiente. Pur rappresentando, preso da solo, la sesta economia mondiale, lo Stato è oggi 40% più energeticamente efficiente del resto del paese.

In materia di normative ambientali la California ha un peso specifico fuori misura, non solo come laboratorio di innovazione tecnologica, ma soprattutto in virtù dei 40 milioni di abitanti che ne fanno il maggiore mercato automobilistico nazionale.

Per accedervi l’industria si è da sempre dovuta adeguare alle regole imposte dallo Stato che finiscono così di fatto per diventare legge nazionale. Grazie alle norme stabilite in California le auto americane in 40 anni sono passate dai consumi antidiluviani di 5 km/litro del 1975 agli attuali 16 km/litro. Il mercato delle auto elettriche si è ugualmente sviluppato grazie agli incentivi e alla quote imposte alle case da Sacramento.

La vocazione ambientalista qui ha radici bipartisan che nascono dallo sforzo per ripulire l’aria dal mefitico smog che soffoca da sempre le metropoli meridionali. Allo scopo negli anni ’70 viene istituito il California Air Resources Board un organo a statuto speciale con facoltà di stabilire autonomamente norme ambientali per lo Stato a cui viene data un’esenzione (waiver) che permette di eccedere i limiti federali.

Oggi l’obiettivo dichiarato è ridurre l’inquinamento fino al 40% al di sotto dei livelli del 1990 entro il 2030, quando il target di consumi previsto per le auto sarà di 25km/litro. I costruttori hanno sempre combattuto le regole californiane, ma al tempo stesso devono alla pressione dei piani regolatori il progresso tecnologico che li ha resi competitivi.

Dopo l’insediamento di Trump i costruttori (che pure erano stati salvati da Obama dopo la crisi subprime) si sono accodati a industriali, petrolieri e finanzieri in fila per un premio dal governo di lobbisti, miliardari e direttori Goldman Sachs. L’amministrazione negazionista di Trump non solo li ha accontentati ma è andata oltre, congelando di fatto gli obiettivi di efficienza sui livelli attuali (16 km/litro). Per aggirare la questione californiana (e sferrare un colpo agli odiati liberal della «Left Coast») Trump ha minacciato di revocare lo storico waiver.

Il governatore Jerry Brown e in seguito il suo successore Gavin Newsom hanno subito confermato il rifiuto netto della California a ottemperare alla regressione ribadendo la tabella di marcia del piano di riduzione del carbonio per contrastare il mutamento climatico.

Il muro contro muro assicura in pratica che la California e altri 13 Stati ricorreranno ai tribunali federali per difendere il waiver e continuando nel frattempo a imporre le proprie regole, spaccando in due l’ordinamento giuridico e il mercato delle automobili. Per l’industria è uno scenario catastrofico in cui si troverebbero a far fronte a distinte regole regionali e federali producendo veicoli dalle diverse caratteristiche e cercando di controllare la diffusione delle auto sul territorio a costante rischio di sanzioni di una e dell’altra parte.

Paradossalmente sono ora gli stessi costruttori a temere un’eccessiva liberalizzazione di Trump. In realtà infatti l’industria ha già fatturato quelle che avrebbero dovuto essere normative progressivamente più severe nelle loro tabelle di produzione per i prossimi anni. Lo scontro aperto fra Washington e California rappresenta invece un’improvvisa instabilità che è davvero destabilizzante per ogni piano industriale.

Al congresso del partito democratico californiano da poco concluso a San Francisco una processione di funzionari e candidati presidenziali hanno ribadito la resistenza a oltranza a Trump e le sue politiche ambientali. L’opposizione non è puramente strategica ma profondamente ideologica: nello Stato a maggioranza ispanica, che ha già puntato il futuro sulla riconversione energetica, negazionismo climatico e progetto eugenetico del suprematismo trumpista sono ugualmente anatema.

Sull’ambiente Trump non ha fatto segreto delle proprie intenzioni sin dalla nomina alla direzione della Epa (Environmental Protection Agency) di un lobbista per l’industria petrolifera e dalla fuoriuscita dal trattato di Parigi. Da allora la sua politica ambientale è limitata a dichiarazioni caratteristicamente perentorie come quella rilasciata a Londra: «Sotto la mia amministrazione l’aria è la più pulita di sempre».

In regime di radicalizzazione trumpista, volatilità economica e politica si sovrappongono come dimostrano le leggi anti aborto che stanno promulgando diversi Stati del sud. Viste dall’America “laica” Alabama, Georgia o Mississippi assomigliano sempre più a un’altra nazione, in cui una restaurazione teocratica rimette in gioco questioni costituzionali e norme acquisite della modernità.

Un’oscurantismo che fa inorridire l’altra America (e spiega ad esempio il boicottaggio della Georgia da parte di Hollywood che minaccia di chiudere le numerose produzioni cinetelevisive basate ad Atlanta). Spaccature profonde che minacciano di diventare insanabili sotto la continua polemica «culturale» fomentata dal presidente, alto sacerdote della discordia e abile provocatore sin dai tempi delle querele da palazzinaro delle pantomime del wrestling e degli psicodrammi del reality tv.

La questione delle norme automobilistiche evidenzia la potenziale ricaduta economica del dissidio elevato a politica presidenziale. L’isolazionismo sovranista di Trump oscilla fra bluff montati ad arte e shock economy e nasconde giganteschi sussidi pubblici per corporation, complesso militare industriale e un numero sempre maggiore di categorie danneggiate dalle guerre commerciali.

Unico «argine» attuale è il globalismo liberista perorato da interessi finanziari e corporation attraverso i loro rappresentanti nel partito repubblicano. Una stasi che rammenta quella europea, paralizzata dal circolo vizioso fra tecnocrati e sovranisti populisti.

A fronte di questo si intravedono segni di vita a sinistra. Dalla campagna per le primarie democratiche sono emersi alcune proposte alternative: il Green New Deal di Alexandria Ocasio Cortez, il programma di Economic Patriotism di Elizabeth Warren e le riforme “socialdemocratiche” proposte da Bernie Sanders. Ognuna prevede piani industriali ed economici centralizzati a medio e lungo termine, un forte ridimensionamento dello strapotere delle corporation a favore dei cittadini e un ruolo centrale delle politiche ambientali.

Un’inversione di rotta essenziale sia rispetto al nazional populismo protezionista che all’iper liberismo selvaggio del mercato nel momento in cui una kleptocrazia sempre più autoritaria e imprevedibile minaccia tanto la stabilità dei mercati quanto l’integrità politica del paese. Come dimostra il caso delle normative sulle auto, dinnanzi alla prospettiva del caos, lo chiedono perfino le aziende.