Oggi il lavoro svolto da Kai Hermann e Horst Rieck solleverebbe molti dubbi e feroci polemiche, alcune delle quali riguarderebbero lo statuto letterario del «non-fiction novel» e la sua legittimità etica. Ma quando Wir Kinder vom Bahnhof Zoo venne pubblicato in Germania, nessuno si pose la questione: il contenuto di quel libro era sconvolgente, e la narrazione in prima persona di una adolescente travolta dall’eroina e dedita alla prostituzione rendeva quella storia ancora più vicina, e quella voce ancora più straziante. Eppure nessuna ragazzina aveva scritto quella testimonianza.
Nel 1978 Hermann e Rieck, due cronisti del settimanale amburghese Stern, incontrarono Christiane Felscherinow in tribunale, mentre seguivano un processo contro uno spacciatore che forniva eroina a ragazze giovanissime in cambio di sesso. Christiane era chiamata dall’accusa a testimoniare contro l’imputato. Le sue confessioni colpirono i giornalisti che chiesero alla ragazza, allora sedicenne, un’intervista. Qui comincia un racconto dello squallore e del degrado della Berlino Ovest degli anni settanta che non era ancora arrivato alle cronache, e che getterà una nuova luce, o piuttosto nuove ombre, sul disagio giovanile dell’epoca. L’intervista diventa un colloquio fiume che dura mesi, nel corso dei quali Christiane racconta nel dettaglio la vita sua e quella di altri adolescenti da lei incontrati. Dopo il clamore provocato da una serie di articoli tratti dalle registrazioni di quelle conversazioni, Stern decide di farne un libro.

ESTENDENDO le ricerche a familiari e conoscenti di Christiane, Hermann e Rieck ne traggono l’artificio di una «autobiografia»: un libro scritto in prima persona, non firmato dagli autori – che restano nell’ombra da perfetti ghostwriter – in cui Christiane racconta la sua storia e il suo dramma personale tra i 12 e i 15 anni. Pura fiction, dunque. Oppure «documento-verità», come recitava in copertina una vecchia edizione Rizzoli (che ancora oggi è l’editore italiano del libro)?
La prima edizione tedesca è del 1979, e suscita grande interesse. Il valore documentaristico del libro è tale da travalicare presto i confini nazionali. L’anno seguente i diritti di traduzione arrivano nei paesi anglosassoni.

NEL 1981, quarant’anni fa, il libro esce in Inghilterra, e contemporaneamente arriva il film che renderà Christiane una celebrità. In molte edizioni fuori dalla Germania, e così anche nel titolo del film, quel Wir dell’edizione tedesca (Noi) viene preceduto o addirittura sostituito dal nome della ragazza, con il cognome puntato, e così Christiane Felscherinow diventa per tutti Christiane F.
Quel ruolo, negli anni – Christiane è sopravvissuta alla sua battaglia, seppur nella malattia e nel dolore – non la abbandonerà più. Nel 2013 pubblica un altro libro – scritto con la giornalista Sonja Vukovic – intitolato Mein Zweites Leben, edito in Germania dalla Deutscher Levante e in Italia ancora da Rizzoli (Christiane F. La mia seconda vita). La struttura del libro stavolta non segue alcuna cronologia e alterna racconti autobiografici di Christiane ad alcuni articoli di Vukovic a proposito delle politiche della Repubblica Federale sul tema delle droghe, sui programmi di sostituzione dell’eroina, sui costi per il sistema sanitario nazionale e sui nuovi stupefacenti. Un racconto del tutto «de-narrativizzato»: forse uno dei tanti sogni divenuti impossibili di Christiane, quello di smettere di essere una «storia». Evidentemente, tutto il contrario di quanto propongono gli algoritmi di Amazon.