I dati sono sconfortanti. Le conclusioni, se possibile, anche peggio. Ma non è proprio il caso di essere fatalisti. Achim Steiner, segretario esecutivo del Programma dell’Onu per l’Ambiente, sostiene che il mondo si trova di fronte a una sfida di carattere “non tecnologico ma politico”. Come dire che se la concentrazione dei gas serra che causano il riscaldamento climatico non è mai stata così elevata come nel 2012, la colpa è di chi governa questo mondo che sembra avviato al disastro.

Michel Jarraud, segretario generale dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm) – a commento del rapporto presentato a Ginevra alla vigilia dei negoziati sul clima che si terranno a Varsavia dall’11 al 22 novembre – è stato ancora più chiaro: “La temperatura media del globo alla fine del secolo potrebbe sorpassare di 4,6 gradi quella dell’era preindustriale (1750), e anche di più in alcune regioni, e le conseguenze sarebbero catastrofiche”.

Lo studio che se preso sul serio dovrebbe scatenare una rivoluzione tecnologica e culturale di portata storica si può riassumere così: l’aumento di CO2 tra il 2011 e il 2012 è risultato superiore al tasso medio di crescita degli ultimi dieci anni, e il “forcing radiativo” dovuto all’effetto serra è aumentato del 32% tra il 1990 e il 2012. Significa che le emissioni mondiali di gas a effetto serra saranno da 8 a 12 miliardi di tonnellate al di sopra degli obiettivi fissati per il 2020 (arrivando così a 59 miliardi di tonnellate), un livello da allarme rosso anche se tutti i paesi a partire da oggi dovessero aderire agli accordi sulla riduzione delle emissioni.

Come si legge nel rapporto dell’Omm, la CO2 “rimane nell’atmosfera per centinaia d’anni, a volte fino a migliaia, e la maggior parte dei danni causati dal cambiamento climatico persisterebbero per secoli anche se le emissioni dovessero cessare”. L’aumento registrato di recente, secondo gli scienziati, si deve soprattutto alla crescita di produttività della Cina e dei paesi cosiddetti emergenti, ragione per cui è davvero poca cosa sottolineare l’abbattimento delle emissioni avvenuto nel nostro piccolo mondo, l’Italia, che per via della crisi nel 2013 ha consumato meno prodotti combustibili derivati dal petrolio (-6,1%, un dato comunque notevole in un paese dove l’88% delle merci viaggia su gomma).

Gli scienziati si sono posti un obiettivo: per scongiurare le peggiori ipotesi per il pianeta bisognerebbe riuscire a contenere il riscaldamento sotto i 2 gradi entro il 2020, ma per fare questo le emissioni di gas serra dovrebbero diminuire del 14%. Altrimenti saranno catastrofi, sia per i paesi direttamente coinvolti sia per quelli che di riflesso non potranno non essere investiti dalle tragedie che si abbatteranno su miliardi di esseri umani. Non tutti i paesi, infatti, sono ugualmente vulnerabili di fronte al cambiamento climatico.

Secondo uno studio pubblicato la settimana scorsa dall’istituto inglese d’analisi dei rischi Maplecroft – un lavoro approfondito che tiene in considerazione anche aspetti come la sensibilità delle popolazioni, la disponibilità economica dei governi e i mezzi tecnologici – nei prossimi dieci anni un terzo della produzione economica mondiale sarà localizzata proprio nei paesi più colpiti dal cambiamento climatico. In particolare il rapporto indica 67 paesi più esposti ad “avvenimenti estremi” (tempeste, inondazioni, siccità, migrazioni massicce, innalzamento del livello del mare), e sono gli stessi che rappresenteranno circa il 31% del Pil mondiale nel 2025.

Non è un caso se i dieci paesi più esposti sono anche i più poveri: Bangladesh, Guinea Bissau, Sierra Leone, Haiti, Sudan, Nigeria, Congo, Cambogia, Filippine ed Etiopia. Tuttavia saranno pesantemente flagellati anche i paesi con le economie più forti o in crescita, alcuni classificati a “rischio estremo” (come India, Pakistan e Vietnam), altri classificati ad “alto rischio” (Indonesia, Thailandia e il colosso Cina). Complessivamente, 5 miliardi di persone nel 2025, il 64% della popolazione mondiale. Le prime cinque metropoli a rischio sono Dacca, Bombay, Manila, Calcutta e Bangkok. I paesi meno coinvolti dai cambiamenti climatici, invece, sono nel nord Europa (primi classificati Islanda, Norvegia e Irlanda, poi Finlandia, Lussemburgo e Danimarca).

Lo studio inglese però dice anche che l’Europa del sud nei prossimi cinquanta anni conoscerà forti cambiamenti climatici, ciononostante i paesi più interessati (come Malta, Italia e Grecia) dovrebbero essere in grado di sviluppare una forte capacità di adattamento grazie ai mezzi finanziari e alle tecnologie di cui dispongono. Tanto ottimismo, evidentemente, poggia sul fatto che le previsioni di lunga durata guardano ben al di là del governo delle “larghe intese”, lo stesso che al prossimo vertice di Varsavia reciterà la parte dello spettatore disinteressato. “Il governo non ha assolutamente la prospettiva della green economy come fattore di rilancio – accusa Mariagrazia Midulla, responsabile clima ed energia del Wwf – e sui temi ambientali arrivano continuamente segnali contrastanti”. Dice Midulla che “i governi del mondo impiegano la maggior parte del loro tempo a fare giochi politici invece di preoccuparsi per il riscaldamento globale”. Figuriamoci il nostro.