La chiesa di San Paolo è proprio a una delle estremità del Parco Verde di Caivano, paesone al confine tra Napoli e Caserta. Era la parrocchia dove sono stati battezzati Maria Paola Gaglione e Ciro Migliore. I due ragazzi vivevano nel complesso di palazzi sorti nel dopo terremoto del 1980 per riversarci gli sfollati, i rispettivi appartamenti separati solo da un vialone. Nella stessa chiesa ieri pomeriggio don Maurizio Patriciello ha celebrato i funerali di Maria Paola, 18 anni appena compiuti, scaraventata a terra mentre cercava di scappare con Ciro, il fidanzato trans di una manciata di anni più grande. La gip lunedì ha convalidato l’arresto del fratello Michele, accusato di omicidio preterintenzionale aggravato dai futili motivi. Li ha inseguiti su una moto, avrebbe sferrato calci per farli finire fuori strada e, dopo la rovinosa caduta costata la vita alla sorella, si è poi accanito su Ciro, colpendolo ripetutamente nonostante avesse la spalla fratturata.

All’ingresso della parrocchia il manifesto funebre della famiglia: a dare il triste annuncio della cerimonia c’era anche il nome del fratello, accusato proprio di aver causato l a morte. Avrebbe voluto partecipare al funerale, racconta l’avvocato. Accanto, un enorme cartoncino bianco con l’ultimo addio di Ciro, le parole le ha dettate a un amico: «Correvamo soltanto verso la nostra libertà o almeno credevamo di farlo, verso la nostra piccola ma grande felicità. Ovunque sarai il mio cuore sarà lì con te. Ti amerò oltre le nuvole». Lo stesso amico che riesce solo a dire: «È psicologicamente distrutto», prima di scoppiare in lacrime. Neppure Ciro ha potuto partecipare alla cerimonia, l’ultimo saluto l’ha dato all’obitorio, accompagnato dagli attivisti di Antinoo Arcigay Napoli, che si costituiranno parte civile al processo.

La folla di parenti e amici arriva un po’ per volta, nessuno ha voglia di parlare. Gli amici di Paola, come la chiamavano di solito, indossano la maglietta con il suo volto, la mamma sale le scale del sagrato tenuta dai parenti. Il feretro è bianco, come si usa per chi è giovane. A fine cerimonia il corteo funebre fa scalo davanti alla casa della famiglia e poi al cimitero.

«Signore, ricordaci che prima dell’orientamento sessuale, del colore della pelle, del conto in banca, viene la persona umana»: sono le parole di don Patriciello durante l’omelia. Sul sagrato Noemi, capelli neri lunghissimi e occhi grigi, unghie laccate e orologio da sub, racconta frammenti di vita di Paola: «Non meritava di morire. Eravamo compagne di scuola alle elementari, ci frequentavamo. Io ho una compagna e non mi vergogno a dirlo. Per mia mamma è stato difficile all’inizio ma sono sempre sua figlia, mi vuole bene e ha capito. Paola mi confidava le sue difficoltà a casa, la famiglia non accettava la sua relazione con Ciro, per loro erano due donne. Molte sofferenze se le teneva dentro. Stava male per questo ma quando parlava del loro rapporto era felice, si illuminava. Era una ragazza splendida, piena di vita». Accanto a Noemi c’è la nonna, l’abbraccia e parla dei figli, dei nipoti: «I genitori devono saper capire», spiega.

La mamma e il padre di Paola sostengono che si è trattato di un incidente, che non erano contrari al rapporto con Ciro perché trans ma perché non aveva un lavoro, piccoli precedenti per droga. Come tantissimi nella zona: un luogo senza futuro dove l’unica cosa che non si ferma mai è lo spaccio. Volevano tenerla a casa ma Paola aveva deciso di andare a vivere con Ciro.

«Uccisa dal fratello – il commento di Stefania Cantatore dell’Udi Napoli -. Non potrà più parlare né andare oltre, come voleva e dove voleva. Una donna viene uccisa sempre per questo, per impedirle di superare il limite. Un femminicidio è inconfondibile perché la morte di una donna per mano di un uomo, dovunque nel mondo, è la punizione che spetta a quelle che non sono quelle che ci si aspetta, a Caivano come a Busto Arsizio».

Sul sagrato si fa avanti Genny, anche lui giovanissimo, all’anagrafe Filomena: «Ho scelto un nome che rispecchia davvero chi sono. Non dite che Paola è morta per la cultura che c’è a Caivano, per la mia famiglia è stato difficile ma mi vogliono bene. Ci riuniamo tra noi ragazzi per strada. Qui manca tutto, per la comunità Lgbtq non c’è un’associazione dove poter parlare dei nostri problemi. Magari adesso la facciamo, abbiamo bisogno di uno scopo».