Questa è una storia che ha come protagonisti undici migranti, richiedenti asilo del Ciad, del Mali e della Liberia, arrivati in Italia a causa della guerra in Libia. Undici ragazzi che per sfuggire a violenze e all’oppressione hanno dovuto prima lasciare le loro terre d’origine per ricostruirsi una vita in Libia, e poi trovare il coraggio di continuare a sperare, attraversando il mare affidandosi ai barconi della morte.

Nel nostro paese si aspettavano di trovare un aiuto, per potersi ritagliare progressivamente uno spazio di lavoro e di vita. Invece hanno passato due anni in un centro d’accoglienza puramente assistenziale alle porte di Pisa, gestito dalla Croce Rossa su incarico dell’amministrazione comunale. Emarginati in container fatiscenti, chiamati non per nome ma per numero dagli stessi operatori del centro, assistiti con due euro e mezzo al giorno e due pasti quotidiani precotti. Senza nessun percorso di integrazione sociale e professionale attivato, a fronte dei 46 euro giornalieri stanziati per l’accoglienza di ognuno di loro. Le uniche attività organizzate erano le quattro ore settimanali di insegnamento della lingua italiana, presso una associazione locale di volontariato che da anni organizza corsi di italiano gratuiti per migranti.

Il 28 febbraio dello scorso anno, giorno di chiusura del progetto «Emergenza Nord Africa» e delle relative strutture di accoglienza tra cui quella di via Pietrasantina, si è toccato il fondo. Quella mattina gli operatori della Croce Rossa sono arrivati alle 8 a chiudere, in pratica a sgomberare, l’intera struttura. Caricando su un grande camion reti e materassi, e portando via tutto quello che era strettamente necessario alla vita del centro.

Quel giorno la struttura ospitava ancora 22 richiedenti asilo, titolari di una protezione internazionale. Da una parte volti spaesati e disorientati, bocche immobilizzate dalle barriere linguistiche e dall’impossibilità di capire davvero quello che stava accadendo. Dall’altra operatori mai visti prima, che con fare distaccato e sorridente spiegavano che il progetto nel quale erano stati inseriti era terminato. Il centro di accoglienza veniva dismesso, 500 euro di buonuscita e via andare. Verso il nulla.

Ma c’è anche un’altra storia da raccontare. Quella di un piccolo gruppo di studenti universitari del corso di Scienze per la pace, attivisti di Africa Insieme e del Progetto Rebeldìa, che nei mesi precedenti si erano messi a seguire l’esempio di Alex Langer ed erano diventati, chi consciamente e chi inconsciamente, «costruttori di ponti» e «saltatori di muri». Alcuni avevano conosciuto i ragazzi insegnando in una scuola di italiano per migranti, altri tramite amicizie in comune. In questo modo si erano create relazioni molto forti. Universitari e migranti richiedenti asilo uscivano insieme la sera, si divertivano approfondendo al tempo stesso la reciproca conoscenza. Crescevano insieme, prendendo via via consapevolezza delle difficoltà contingenti e dei sogni di ognuno di loro. Fu così che si formò un unico gruppo: una grande famiglia allargata, una piccola comunità di «traditori della compattezza etnica».
La caratteristica di ogni comunità che si rispetti è che un problema di un singolo è un problema di tutti. Così quel 28 febbraio il gioco non consisteva più nell’indurre alcuni migranti isolati ed emarginati ad abbandonare la struttura che li aveva accolti, usando come esca una banconota da 500 euro, ma convincere un gruppo unito, compatto ed eterogeneo allo stesso tempo, delle prospettive che si aprivano dopo la chiusura del centro. Considerato che in quel momento di positivo non c’era alcunché, undici richiedenti asilo decisero con una buona dose di coraggio, sostenuti dalla piccola comunità che avevano alle spalle, di rischiare di perdere i 500 euro e di iniziare l’occupazione in autogestione della struttura di via Pietrasantina. Almeno fin quando non fossero stati attivati – per ognuno di loro – i percorsi di inserimento sociale e professionale che erano stati assicurati ma che latitavano da più di due anni. In questo modo è iniziata l’esperienza – unica in Italia – di autogestione a 360 gradi di un centro di accoglienza dismesso. Dove migranti, studenti universitari e attivisti di Africa Insieme e Progetto Rebeldìa hanno deciso di lottare per quella giustizia che, ricorda il subcomandante Marcos, non è mai calata dall’alto ma cresce sempre dal basso.

Dopo otto mesi di occupazione, nello stesso giorno del tragico naufragio in mare vicino alle coste di Lampedusa che è costato la vita a più di 350 migranti, la Croce Rossa ha deciso di staccare le utenze di gas e luce. Costringendo per oltre tre mesi i migranti, nonostante la loro protezione internazionale, a lavarsi con acqua fredda e a dormire sotto quattro strati di coperte, in container diventati freddi e bui. Da quel 3 ottobre 2013 i volontari e le associazioni hanno contattato a più riprese l’amministrazione comunale pisana di centrosinistra, chiedendo un suo intervento per il riallaccio delle utenze. Senza però mai ottenere risultati significativi, e assistendo così alla violazione quotidiana dei diritti umani più elementari, e della stessa Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951.
Nel corso dell’anno, all’interno del centro di accoglienza sono state organizzate alcune attività autofinanziate e autogestite. A partire dal progetto degli «orti sociali multiculturali», con la realizzazione di un variegato orto nello spazio aperto della struttura, e la vendita di oltre 200 fusti di insalata alle reti locali pisane dei gruppi di acquisto solidale. Le «insalate migranti» sono state poi acquistate dal sempre maggior numero di cittadini che sono in collegamento con i Gas. Poi è stato avviato un progetto di «teatro dell’oppresso», e alcuni laboratori di artigianato con la lavorazione dell’argilla e la realizzazione di borse e di strumenti musicali africani. Ancora dei corsi di lingua, italiano, arabo e inglese. Infine la realizzazione di un video documentario, dal titolo «CiaLiLaPi (Ciad-Libia-Lampedusa-Pisa), il lungo cammino verso la speranza» già proiettato in diverse città d’Italia e che racconta le storie di migrazione e di accoglienza di sei ragazzi ciadiani fra i protagonisti dell’autogestione del centro.

Oggi, a meno di un anno dall’inizio dell’autogestione, gli studenti e i richiedenti asilo stanno per ritrovarsi un ultima volta in quello che in questo periodo è diventato il «loro» centro di accoglienza. Un sabato intero per festeggiare tutti insieme il felice esito di un percorso di integrazione e accoglienza dal basso, costruito senza un euro ma con grande abbondanza di abbracci e di sorrisi. La battaglia dell’occupazione e i mesi di autogestione in via Pietrasantina hanno portato – grazie a una proficua collaborazione con la Società della Salute e l’Istituzione Centro Nord-Sud – all’attivazione di percorsi di tirocinii formativi retribuiti, e alla firma di contratti d’alloggio che hanno portato i migranti protagonisti di questa storia ad entrare nelle loro nuove, vere, case. Questa esperienza ha interessato anche la Fondazione Langer, che a fine dicembre è venuta a Pisa in visita e ha mostrato di apprezzare le modalità con cui è stato organizzato il progetto di autogestione. Definito come un esempio virtuoso di pratica di accoglienza e integrazione dal basso.