La febbre è alta, e non accenna a calare. La temperatura è salita quando Di Maio, dopo l’Umbria, ha dichiarato il ritorno alle origini, al Movimento né di destra né di sinistra, equidistante e ago della bilancia, refrattario ad alleanze strutturali con il Pd.

In tal modo il capo politico ha ridefinito – inconsapevolmente? – le coordinate fondamentali, aumentando la sensazione di precarietà dell’esecutivo, rendendo più immediatamente reale la prospettiva di una vittoria della destra nelle prossime scadenze regionali, persino aprendo scenari di possibile voto politico a breve. Un ambiente ostile per il governo e la sua maggioranza.

Un fronte difficile si è in specie aperto nelle regioni – Emilia-Romagna, Calabria – al voto il 26 gennaio. Probabilmente, anche a questo ha contribuito la nuova via indicata da Di Maio. Il taglio dei parlamentari, la prospettiva che rimanga un impianto elettorale maggioritario, e il calo generale nei consensi segnalano che la presenza M5S in parlamento potrebbe essere nel prossimo turno ridotta a poche decine di eletti nelle due camere. Questo può aver accresciuto la pressione nei 5Stelle per la presentazione di proprie liste, perché quanti si sono impegnati nelle realtà locali su un percorso volto a ottenere o confermare uno scranno parlamentare sanno che la strada è diventata impervia, e forse senza uscita. È dunque comprensibile che l’istinto di conservazione spinga a mantenere aperto uno spazio sullo scenario regionale.

Affidare la scelta a Rousseau non è un esercizio di democrazia, ma una strategia di riduzione del danno e insieme una confessione di debolezza. Chiamare al voto tutti gli iscritti e non solo quelli delle regioni interessate sembra voler diluire la contrarietà locale a forme di desistenza in un più ampio contesto. La motivazione dell’impegno assorbente per gli stati generali del Movimento si mostra pretestuosa per un soggetto politico al governo del paese. A quanto si dice, la scelta di non presentare proprie liste è preferita ai più alti livelli del Movimento, per il timore che i voti M5S possano essere determinanti nel consegnare la regione alla destra. Ma è una scelta che non riesce ad imporsi localmente, per la leadership indebolita di Di Maio e la mancanza di un vero gruppo dirigente. Alla fine, il voto in rete è partecipazione di tutti, o imposizione dall’alto su pochi? Il 70 per cento che ha votato per presentare le liste dà una risposta inequivocabile.

Anche la nascita delle sardine si intreccia con le convulsioni M5S. Dichiaratamente, scendono in campo per il pericolo di vittoria della destra, appunto accresciuto dal rifiuto M5S di alleanze e coalizioni. Usano strumenti tipicamente propri di M5S, organizzando i flash mob in pochi giorni sulla rete. Possono sollecitare alla partecipazione la parte del popolo di sinistra che forse ha anche guardato con attenzione a M5S, ma se ne è poi staccata nel tempo in gialloverde.

La piazza delle sardine ci interroga, tutti. Come contribuire a renderla un fenomeno non effimero e occasionale? Sentir cantare Bella ciao ha in molti richiamato emozioni che lunghi anni di traversata nel deserto avevano indotto – magari inconsapevolmente – a chiudere nell’armadio dei ricordi. Ma ora bisognerà trovare il modo di tradurre quella piazza nella politica e nelle istituzioni. Il manifesto messo in rete a seguito dell’evento bolognese sembra puntare nella giusta direzione. Certo, non sono le sardine ad avere bisogno della sinistra, ma il contrario.

È presto per sapere cosa verrà. Nell’immediato, è importante che le sardine facciano la differenza. Sono percepite come un pericolo reale dalla destra arrogante già convinta di avere la vittoria in tasca. Soprattutto colpisce il tentativo di dipingere Salvini come vittima di aggressione per una iniziativa che non ha avuto alcun carattere di intimidazione o di violenza.

È un vero paradosso. Proprio Salvini, usando in specie la rete, ha avvelenato quotidianamente i pozzi con un linguaggio politico arrogante e intrinsecamente violento. Da ultimo ha persino cercato di raggiungere gli adolescenti ancora lontani dal voto, evidentemente puntando a un imprinting politico. Ora si sente inseguito e minacciato. Se fosse ancora al Viminale, vorrebbe chiudere i porti ai pescatori. Chi di rete ferisce di rete perisce.