Il confronto tra i forconi in piazza del Popolo e quella dei movimenti dei migranti e per la casa all’Esquilino è stato un viaggio nel tempo.

La prima piazza era sospesa tra ciò che ha perduto e ciò che non è mai esistito: la «sovranità monetaria», la lira che «valeva la metà ma durava il doppio», la sensazione precaria di stare nel motore di un capitalismo che a quel tempo funzionava ancora, la nostalgia di una comunità nazionale oggi espropriata dal «signoraggio bancario» e dall’euro («una forma di schiavismo inventata negli Stati Uniti nel 1928» è stato detto). L’insistenza era sul tricolore “che non è di destra né di sinistra”, mentre qualcun altro scandiva un’idea chiara: “l’Italia è un popolo, un destino, una nazione”. I toni del poujadismo all’italiana sono gli stessi della «Grande proletaria si è mossa» di Giovanni Pascoli.

Per chi lo legge il discorso recitato dal poeta nel 1911 è stato riattualizzato nel «frame» mediatico di una presunta «rivoluzione nazionale» rivista e corretta. Piazza del Popolo ieri voleva dunque tornare a essere «padrona in casa propria». Padrona cioè di tornare a consumare.

Al centro del discorso il vittimismo sulla nazione operosa sempre tradita e oltraggiata all’estero («ci trattano da pecorelle») e oggi dalla «casta» in parlamento. Quello dei forconi è un viaggio nell’immaginario della crisi: in mancanza di alternative plausibili, meglio tornare al «trentennio glorioso», quando il Pil cresceva del 2,3,4%, ciascuno aveva una casa, al lavoro veniva riconosciuta la «dignità». Non importa se vero, o meno, e a quale prezzo quel lavoro (dipendente, autonomo, o la piccola impresa) ha conquistato una simile dignità. Tutto oggi sembra uguale, ma non è vero. Dal palco hanno parlato i piccoli imprenditori artigiani, agricoli o commercianti, o almeno così hanno detto.

Il discorso pubblico è stato istruito da quello che il sociologo Aldo Bonomi ha definito il risultato del la «crisi del postfordismo italico». Dicono di essere micro-imprenditori strozzati dalle tasse. Chissà se negli anni d’oro quanti di loro si sono astenuti dallo sfruttamento di un precario, di uno stagista, di un cocopro.

Lasciando la folla rada di duemila persone, il ricordo di un’altra piazza del Popolo, quella del 14 dicembre 2010, giorno della fiducia (comprata) al governo Berlusconi. E della più dura e furiosa opposizione degli studenti contro la riforma Gelmini dell’università. Anche al cronista fu aperta la testa da un manganello, qualche punto di sutura. Altra storia, altra piazza, dove non c’erano i neo-fascisti di Casa Pound. A un quarto d’ora di metro, tra piazza dell’Esquilino e piazza Vittorio, ecco i migranti e i rifugiati, i movimenti per la casa, i centri sociali. Forti, orgogliosi, musicali. Lontani anni luce.

Più di cinquemila persone: migranti, occupanti delle case, gli sfrattati, il lavoro precario della conoscenza, dei servizi, quello più qualificato e meno qualificato. Persone che non hanno nulla da rimpiangere, molto da perdere, tutto da conquistare. In quel paese compianto dall’altra piazza non avevano cittadinanza, tanto meno ce l’hanno oggi. Molti di loro ci sono arrivati da poco, a chi ci è nato da genitori stranieri quella cittadinanza non viene riconosciuta. Essere spossessati, non avere un nome, fa paura ad uno sciame di consumatori variamente classificabile nel basso ceto medio declassato, alla stessa composizione multiforme del precariato che ha ormai perso l’appartenenza ad un ceto, ma non vuole rinunciare allo status perduto.
L’insicurezza è la stessa, ma a piazza dell’Esquilino brulicavano gli stessi movimenti che nella Capitale sembrano avere fatto un salto nel tempo, nel futuro anteriore.

Loro vivono nell’immaginario delle terre perdute, della deindustrializzazione, delle case fantasma (a Roma ce ne sono 140 mila sfitte). Migliaia di persone si sono installate in ettari di spazi industriali, nei palazzi della speculazione finanziaria, quella di Stato e quella dei costruttori padroni di Roma. Poveri urbani, proletariato giovanile o di mezza età, classi medie pauperizzate. La saldatura tra italiani e stranieri, quella che qui chiamano «Roma meticcia», nasce dal bisogno, ma rafforza una condizione comune nel Quinto Stato che disperatamente reagisce alla penuria.

Tutto ciò non rientra ancora nel «frame» mediatico italiano, oggi è quello dei «forconi», domani chissà. Ciò che sembra inquietare di più la narrazione sulla crisi oggi è questa richiesta di avere il diritto ad avere diritti da parte di tutti i cittadini. John Holston o Arjun Appadurai l’hanno definita la «cittadinanza insorgente» dei movimenti urbani e della casa in Brasile o in India.