Auguste Renoir con Albert André a Laudun (Gard), nel giardino di casa di quest’ultimo, 1906

 

Auguste Renoir con Louis Valtat (a sin.) e Georges d’Espagnat (in piedi), Magagnosc, 1900

 

Albert André, “Jean céramiste”, 1920, collection Anne Renoir

 

Nell’inverno 2018-’19 la magnifica mostra Renoir père fils al parigino Musée d’Orsay dedicava una sezione a Jean Renoir ceramista. Tornato dalla guerra con la sua ferita alla gamba, Jean imparò a impastare nell’atelier che il padre Auguste, gravemente infermo per l’artrite reumatoide, aveva fatto costruire, dopo la morte della moglie Aline Charigot, perché il figlio minore Claude, «Coco», che lo assisteva, impiegasse costruttivamente il suo tempo. La scena è la tenuta dei Collettes a Cagnes-sur-Mer (Alpi Marittime), dove il pittore si era stanziato definitivamente nel 1908.
Ricorda Jean in La mia vita, i miei film (1974): «Il nostro tornio era di un modello vecchio che si azionava con il piede. La cottura veniva effettuata in un forno a legna. Ogni cottura richiedeva una decina d’ore. La sera, mentre continuavamo a sorvegliare la temperatura all’interno del forno da un piccolo foro praticato sulla porta, ascoltavamo dischi e mangiavamo pissalat». Un’avventura a cui Jean, prima di scegliere il cinema, cercò di dare anche uno sbocco commerciale: ne testimoniava, in mostra, la serie di pezzi conservati a Filadelfia, nella fondazione del dottor Albert Barnes, «il solo al mondo a collezionare le mie ceramiche».
Gounod e la porcellana
Si può capire così l’affezione particolare che Jean riserva, in Renoir, mio padre (1962), agli inizi del genitore come pittore di porcellane. Del resto, Auguste veniva da una famiglia installatasi a Limoges, poi trasferitasi a Parigi quando egli aveva quattro anni, 1845; ragazzino, entrò in una piccola manifattura di rue Vielle-du-Temple, scelta in alternativa a un ben più promettente apprendistato da tenore, maestro Charles Gounod. Ma la vera promessa si era rivelata la porcellana e il figlio ricorda come già si intuisse «la mano di un grande» in «un vaso decorato con una Venere su uno sfondo di nubi», avuto per molto tempo in casa sua e scomparso durante la Seconda guerra.
L’attività artigianale aveva spinto il piccolo Auguste verso la grande arte se in cerca di motivi per i suoi disegni su porcellana si era fermato un giorno dinanzi alla fontana degli Innocenti di Jean Goujon… E tuttavia gli restò profondo l’amore per l’oggetto umile ma ben fatto, e fatto da un artigiano che è una persona con un suo mondo, come nel Settecento francese, la civiltà in cui Renoir si trovava davvero a casa. Questo amore lo trasferì evidentemente al figlio… nel libro sul padre Jean trova il modo di sostare su «una zuppiera bianca di vecchia ceramica di Parigi» che Auguste aveva ricevuto in dono da un anziano pittore caduto in rovina, zuppiera rimasta a casa sua, anche questa, «fino alla guerra del ’39»…
Insomma, non è per niente sorprendente che il futuro regista della Grande illusione avesse accarezzato per un momento l’idea di diventare ceramista, come lo rappresentava, al d’Orsay, un quadro di medio formato che conoscevo quale sfondo di una fotografia anni sessanta di Jean nella sua villa di Beverly Hills, ma non avevo mai visto dal vivo. Oggi è della nipote di Jean, Anne Renoir: lo dipinse nel 1920, quando Jean aveva 26 anni, Albert André.
Chi era André? Che tipo di uomo e di artista si nasconde dietro l’immagine dai colori marini, amorosamente condotta, di Jean céramiste, tondo, biondo, coi baffi, al tavolo di lavoro nel laboratorio dei Collettes, circondato di terraglie ora grezze ora già decorate, concentrato sull’ultima nata come a divinare il suo destino? Parlare di André significa evocare uno spaccato significativo non tanto in termini storici o qualitativi, ma quale testimonianza di un côté davvero speciale: i figliocci di Renoir! È il 1905, Auguste ha sessantaquattro anni, patisce una recrudescenza reumatica. Da Renoir, mio padre: «Le file dei suoi compagni di giovinezza andavano diradandosi. Pissarro morì nel 1903, Cézanne nel 1906. Ma c’erano i giovani: d’Espagnat, Valtat, Bonnard, Vuillard, e soprattutto Albert André e sua moglie Maleck. Queste persone straordinarie procurarono molta gioia agli ultimi anni di Renoir. Penso anzi che Albert André fu il solo amico a conoscere a fondo il maestro e a capirlo veramente durante il periodo che precedette e seguì il nostro trasferimento nella casa di boulevard Rochechouart», cioè l’ultima dimora parigina di Renoir e famiglia.
Come la zuppiera bianca rimpianta da Jean, André è uno di quegli artisti di aurea mediocritas che dicono l’esistenza di un tessuto di civiltà, di una realtà figurativa solida e silenziosa, distante dagli scassi individuali, dalle fughe in avanti, cui pure non si oppongono e magari segretamente acconsentono, privi come sono di spirito revanchista. Fondamentalmente moderato, consapevole dei propri limiti entro cui opera con serena coscienza e consumato mestiere, André rappresenta nel modo meno corrivo il permanere nel Novecento della tradizione impressionista.
Per la verità è un po’ più complicato: insieme ai suoi amici e stretti coetanei Georges d’Espagnat e Louis Valtat, André condivise la formazione parigina all’Académie Julian (la prima ai margini dell’École des Beaux-Arts) in quella fine anni ottanta dell’Ottocento che vide nascere proprio lì, capitolo del vasto sommovimento postimpressionista, il fenomeno dei Nabis. Ai loro esordi si trovano tutti e tre nel pieno dei nuovi fermenti e li recepiscono, ognuno secondo il proprio sentire: André è il più vicino all’intimismo di Vuillard. Nel rapido progredire delle ricerche, partecipano in una maniera o nell’altra all’emergere del fauvismo dal seno del pointillisme: anzi Valtat si continua a ritenerlo un precursore, il primo, come scrisse Pierre Cabanne, a formulare compiutamente l’autonomia del colore, e nel modo più energico (La Fiesta, 1896), «parecchi anni avanti che il suo contemporaneo Matisse posasse del vermiglio sulla tela». In realtà sia André sia d’Espagnat sia Valtat si rifiutano di evolvere secondo quel che implica la loro formazione, non riescono a staccarsi dal tronco impressionista e restano in una terra di mezzo, a cucinare, ciascuno speziando a suo gusto, il loro saporito mélange di tradizione e avanguardia.
Emmanuel Pernoud, in occasione della monografica di Bordeaux (1995), definì Valtat «peintre flottant…, navigant entre le tendances». Un po’ meno, vale anche per gli altri due. Ma, attenzione: i nuovi studi sul fauvismo, a partire da Alastair Wright (2004), hanno evidenziato come questo fluttuare fra tendenze, questa identità mobile e sfuggente, non rappresentino tanto il deficit temperamentale di singole personalità, quanto un tratto generale, un’antropologia figurativa, nella transizione fra Otto e Novecento. In un lucido saggio del 2011 Claudine Grammont segnala che questa «hybridité constitutive d’une esthétique» fu peraltro già avvertita dai contemporanei, se Matisse poteva essere definito «le caméléon» (Leblond, 1905) e se nel 1909 il penetrante Charles Morice indicò in Valtat sì un’incertezza poetica, che però «lo apparenta a quasi tutti i suoi contemporanei, designa l’epoca».
Come influì la conoscenza personale di Renoir su ciascuno dei suoi tre figliocci? Se per la parte artistica non è semplice a determinare, sappiamo per certo che fu abbastanza decisiva quanto alla loro carriera. Renoir, con la sua generosità verso i più giovani, in cui avvertiva le difficoltà che egli stesso aveva dovuto patire agli inizi, presentò i tre ai mercanti d’arte suoi amici: André e d’Espagnat a Durand-Ruel; Valtat a Vollard. Il rapporto di Durand-Ruel con i due protégé di Renoir rappresenta un capitolo stuzzicante, e poco conosciuto, nella biografia del gallerista che ha legato la sua fama all’impressionismo. Si avrà modo di vederlo spiegato, a partire dal 6 maggio, in una mostra alla Proprieté Caillebotte (Yerre), in cui, sotto la stella di Durand-Ruel, André e d’Espagnat saranno affiancati da Loiseau, Maufrà e Moret: i cinque giovani in cui il mercante sentiva più immediata, meno complicata, l’eredità di Monet e Renoir all’interno del quadro post-impressionista.
Gli Indépendants del 1894
L’occasione d’incontro fra André e Renoir fu il Salon des Indépendants del 1894: Albert ha 25 anni; Auguste 53, e si è lasciato alle spalle il momento di crisi «disegnativa» definito aigre scoprendo il segreto di quella dorata fusionalità, di quel dipingere «con gomitoli variopinti» (Degas), che avrà il suo apogeo negli anni finali di Cagnes. Nasce un’amicizia destinata a durare. Scrive Jean Renoir che André, per il padre, era come un altro figlio. Divenne, accanto a Jean, il testimone più prezioso, tra Parigi, Essoyes (il paese della moglie, nell’Aube, dove i Renoir avevano una casa: lì sono tutti sepolti) e Cagnes. L’ultimo, dolorosissimo anno della vita di Renoir, il 1919, André diede alle stampe quel profilo critico del pittore (seconda edizione, accresciuta, 1927) che resta il resoconto più vivo e aderente del suo operare, frutto di lunghe frequentazioni d’atelier. Nelle descrizioni più tecniche, poi, è inarrivabile: prosa di collega pittore. Per esempio questo passo, giustamente citato come «felicissimo» da Denis Rouart nella sua monografia di Renoir (1954): «Del suo originario mestiere di pittore su porcellana ha conservato il gusto dei toni chiari e trasparenti. Il fondo bianco della tela ha ora la funzione che aveva il caolino nei piatti. Comincia a lavorare sulla tela…», e continua riferendo, passaggio dopo passaggio, l’emergere dell’immagine dall’iniziale «nebulosità colorata».
Sembra di stare . Il sogno dell’amatore non è vedere il pittore all’opera? Di qui l’emozione proustiana che suscita la scheggia filmica su Renoir in Ceux de chez nous di Sacha Guitry, 1915: il vecchio Auguste, rattrappito e deformato, «che strizza l’occhio alla tela» come lo ricorda Jean, dipinge assistito dal ragazzo «Coco»; purtroppo non vediamo la superficie pittorica, e qui ci viene in soccorso Albert André… A Renoir, totalmente antiromantico e artigiano, non dispiaceva lavorare in compagnia, socializzare i suoi segreti… che tali restavano.
«L’ombra degli ulivi spesso è color malva; è sempre mobile, luminosa, piena di gioia e di vita. Se ci si lascia andare, si ha l’impressione che Renoir sia ancora lì e che a un tratto lo si possa sentire canticchiare…». Il podere di Cagnes, qui evocato da Jean, fu il luogo in cui si espresse con più pienezza la complicità fra Renoir e André, il primo fragile carcassa, l’altro roccioso di fisico, rassicurante dietro i tondi occhiali professorali. André compativa le sofferenze di Renoir: in un passo straziante del suo libro ricorda di quando, una volta, durante la guerra, uno dei figli di Auguste, gravemente ferito (è Jean? ma potrebbe anche essere Pierre, il maggiore: tutti e due offesi nelle trincee), era andato a trascorrere un congedo di convalescenza accanto al padre, a Cagnes. Il giorno della ripartenza, «Renoir restò prostrato per lungo tempo, la testa ripiegata sul petto, mormorando “Mon petit! mon petit!…” Poi si risollevò e disse violentemente: “Portami all’atelier…”».
Di André, a cui gli Archives départementales du Gard-Nîmes hanno dedicato un anno fa una mostra che lo restituiva nella ricchezza dei suoi vari carismi: il pittore, il critico, l’amoroso conservatore del musée di Bagnols-sur Cèze che oggi porta il suo nome, l’uomo di amicizie (centrale quella con il critico Georges Besson), ci restano alcuni struggenti ‘ricordi’ figurati di Renoir e famiglia. Tra quelli sulla vita ai Collettes, il più bello, Après le déjeuner à la maison Renoir, 1917: morbido dipinto bonnardiano! Ha sul primo piano, di spalle, la sagoma di Vollard, ospite frequente. Esecutore testamentario di Renoir, André diede alle stampe nel 1931, per le edizioni Bernheim-Jeune, quel catalogo delle opere restate nell’atelier che fotografava puntualmente cinquant’anni di grande pittura e, indirettamente, l’intima mutualità del loro rapporto.
Sosta a Magagnosc
Non altrettanto intima, l’amicizia di Renoir con d’Espagnat e Valtat è ugualmente intensa, nel segno padre-figlio. Esiste una fotografia del 1900 scattata nel paese contadino di Magagnosc in cui i tre condividono rusticamente il bicchiere di vino, si può credere in quel Café des Amis nelle cui vicinanze Auguste aveva affittato una casa popolare per sfuggire ai borghesi di Grasse: lo testimonia Jean Renoir, che aggiunge: «Perché un vignaiolo o un impagliatore di sedie sono così interessanti mentre il loro vicino notaio è così noioso?… Mi sono spesso posto questa domanda. Mio padre non se la poneva».
Il momento forse più alto dell’opera flottant di Valtat è nelle incredibili serie ispirate alle rochers rouges di Agay (il piccolo villaggio di pescatori vicino a Saint-Raphaël da lui scoperto nell’inverno 1897-’98) e di Anthéor, a pochi chilometri, dove, a strapiombo sul mare, si fece costruire la casa «Le Roucas-Rou» nel 1899. Qualche tempo prima, in Bretagna, Renoir, come riporta Vollard, era stato colpito dalla «sapienza con cui accostava i toni un giovane pittore»: Valtat! Entrano in rapporto, sicuramente tramite André, e subito Renoir lo raccomanda a Vollard, che lo accoglie nella sua scuderia.
Anche d’Espagnat scende spesso in Costa Azzurra, ospite di Valtat, e si produce in pezzi di colore squillante, a volte un po’ drogato, dinanzi allo spettacolo delle rocce di porfido rosso che già aveva sedotto Armand Guillaumin, l’impressionista a cui più spesso la critica dell’epoca accosta i due pittori (nel 1904 lo stesso Matisse giungerà ad Agay, impregnandosi del «rouge exalté par le soleil couchant»). Insieme, a più riprese, Valtat e d’Espagnat vanno a trovare Renoir a Cagnes, dove, nel 1904, il secondo prende dimora per l’inverno.
Nella geografia pittorica del Midi, l’Anthéor di Valtat risulta equidistante fra Cagnes/Renoir a ovest e, a est, Saint-Tropez/Signac e Saint-Clair/Cross. Un’equidistanza anche estetica, nella fusione del contorno sublimante e di quell’uso spregiudicato e barbaro della divisione dei toni che, al passaggio dei secoli, fece di Valtat e d’Espagnat le punte di diamante del «Pré-Fauvisme Instinctif» (Gaston Diehl). Personalità indipendenti, che resteranno tali allorché, con il Salon d’Automne del 1905, l’autonomia del colore troverà una bandiera ideologica intorno al magistero di Matisse. Significativa l’assenza nei due, troppo francesi, di qualsiasi traccia di primitivismo, una funzione d’avanguardia decisiva nella ricodificazione dello spazio pittorico.
Non possiamo sapere quanto l’esempio di libertà mentale offerto da Renoir abbia contribuito a fare di Valtat e d’Espagnat (questi aveva conosciuto il maestro nel 1895, in occasione della sua prima personale alla galleria parigina Le Barc de Boutteville) i flottant di carattere che furono. Le testimonianze relative alla loro prima formazione già parlano, in verità, di uno spiccato soggettivismo (tutti e due fanatici del Louvre e di Delacroix!), che permarrà curiosamente, poi, in una scelta deliberata di anacronismo. Entrambi fissano una formula: in Valtat la linea contende al colore nel modo più inquieto e sprizzante; in d’Espagnat i contorni si appannano, con un effetto personalissimo di vaporosità. Non si dimentichi il sottile permanere in questi artisti di un’antica sensibilità nabi, di continuo rinnovata dai mai cessati rapporti di amicizia con gli ex compagni dell’Académie Julian – Bonnard, anche lui spesso in visita a Cagnes, ammirava Valtat, di cui possedeva una succulenta natura morta di pesci, La Bouillabaisse.
Le stelle ai Collettes
Ci voleva il romanziere Jean Renoir per fissare eternamente quella specie di Eden nella tempesta – giungeva l’ecatombe della Prima guerra, la fine del mondo di ieri – che fu la tenuta dei Collettes, sempre rimpianta con i suoi «cieli immacolati» punteggiati di stelle, i «grandi alberi di olivo» e il «buon odore del fuoco a legna» che accompagnava l’attività ceramica condivisa con André, la moglie Maleck e la propria compagna, Andrée (Dédée) Hessling, modella prediletta del padre prima di divenire la sua musa cinematografica.
«Terrò una stanza da Davournier e mangerete a casa… Ne approfitterei per fare uno schizzo alla vostra compagna» (Renoir a Valtat, dicembre 1903). «Litigo continuamente con i miei giardinieri. Comunque la casa è ben calda per i reumatismi… abbiamo fatto tagliare i coglioni all’asino, ne ha vergogna ma è costretto ad accettarlo, il povero» (Renoir a d’Espagnat, dicembre 1908). Una fotografia coglie il robusto André che insieme alla bonne conduce in portantina all’atelier nel giardino… un plaid: dove è scomparso Renoir? Corpo sempre più ridotto a misura del puro spirito che divenne nel dorato crepuscolo della vita durante la creazione delle Baigneuses, il quadro testamentario oggi al d’Orsay.
Intorno a questo puro spirito fa corona un gruppo di famiglia in cui la presenza dei figliocci: André, d’Espagnat, Valtat, documentata da un fitto intreccio di testimonianze, segnala segrete nuances che non la storia dell’arte, con i suoi poveri strumenti, ma un approccio integrale, ispirato da un soffio baudelairiano, può sperare di restituire a piena dignità memoriale.